Sembra non finire mai del tutto la disputa sul periodo storico che portò l’Italia dall’8 settembre 1943 alla Liberazione. A lungo molti preferirono non parlare apertamente di “guerra civile”, impronunciabile per chi, antifascista, temeva ogni forma di accostamento tra vittime repubblichine e partigiane. Fu, per decenni, una questione di civiltà e d’identità nazionale ancora prima che storiografica. Non è un caso, ad esempio, che il primo titolo dei Ventitré giorni della città di Alba di Fenoglio fosse Racconti della guerra civile. Poi, anche grazie al lavoro di Claudio Pavone (Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, del 1991), di guerra tra italiani si è iniziato a parlare con sempre maggiore frequenza. Ma tra lavori storiografici importanti e revisionismi d’accatto, il dibattito sulla guerra di Liberazione dal nazifascismo ha prodotto di tutto. Anche la creazione di nuovi steccati ideologici, crollati quelli mondiali, dove la memoria ricostruita ad arte è stata cacciata dentro a forza. Spesso si è scelto di includere o non includere, via via, anche la data simbolo dell’Italia rinata a coscienza civile e pronta a ripartire: il 25 aprile per alcuni ha rappresentato (e rappresenta) una data pericolosa, più che un’occasione di concordia nazionale. Una sorta di patrimonio da smontare un po’ alla volta, nella convinzione che sarebbe giunto il giorno in cui, annacquato dal tempo, il ricordo di quei giorni lontani sarebbe potuto apparire meno nitido e dunque molto più “interpretabile”. Il passato va rimesso in gioco, ma occorre sempre tenere a mente i rischi derivanti dai presidi della memoria storica. Certo, i partigiani uccidevano, condannavano a morte, spargevano sangue. Questo deve forse cambiare il giudizio storico complessivo sulla guerra di Liberazione? Deve forse mettere in dubbio il valore di quei combattimenti e la forza degli ideali di quella lotta?
Ancora oggi, nonostante la concordia diffusa sul significato più profondo del 25 aprile, i piccoli steccati, autocostruiti e patetici, sembrano resistere. Così, nel ricco Veneto, ci sono sindaci che decidono di rimuovere le rose rosse piantate dalla precedente giunta di centrosinistra, pericoloso simbolo di un passato comunista che non deve tornare. O altri che pretendono di bandire dalla memoria collettiva del 25 aprile  addirittura “Bella ciao”, convinti che tutti i partigiani fossero comunisti e che, dunque e per forza, quelle note e quelle parole siano anch’esse rosse e pericolose. Meglio intonare “La canzone del Piave” (e poco importa che quel Piave là fosse quello della Prima guerra mondiale).
Intanto, in attesa di qualche amministratore illuminato che proponga libri di testo per le scuole scritti su base “regionale”, che possano adattarsi alla perfezione alle diverse riscritture storiche, persiste, forte più che mai, il culto del Duce. A Giulino di Mezzagra, dove Mussolini venne fucilato il 28 aprile 1945, proseguono i raduni dei neri. La natura, ormai, i reduci se li è portati via quasi tutti. Ma per fortuna c’è qualcuno che si è incaricato di restaurare anno dopo anno quegli steccati lì, che altrimenti marcirebbero, tirando fuori dall’armadio i baschi della Rsi, con tanto di stemma. Così è accaduto anche ieri ‑ con tre giorni di anticipo, ma era domenica e la sovrapposizione con la festa dei rossi era proprio ghiotta – quando a Villa Belmonte, davanti al cancello della fucilazione, si sono trovati con i bambini, rigorosamente addobbati con baschi neri e calzoni alla zuava: "Eja, Eja, Eja, Alalà!". Tutti insieme appassionatamente, sotto il sole d’aprile di un'Italia ogni giorno più povera di ideali (e non solo). Sempre pronti a rimpiangere un’altra Italia. Quella della guerra civile, appunto. Quella della guerra ai civili.