Tbilisi e gli spifferi della guerra fredda. Una tendopoli è sorta di fronte al parlamento mentre centinaia di tende stanno bloccando il Boulevard Rustaveli, arteria principale della capitale georgiana. Si tratta dell’aspetto simbolicamente più eclatante

delle manifestazioni anti-governative che agitano Tbilisi dal 9 aprile scorso. Il fine delle proteste, è apparentemente incondizionato: le dimissioni del presidente Mikhail Saakashvili. La tendopoli che fronteggia il parlamento georgiano non è soltanto l’emblema delle proteste anti-governative alimentate dall’opposizione ma rappresenta, prima di tutto, il simbolo dello stallo istituzionale in cui è sprofondato il paese. Da una parte il governo presidenziale, incarnato nella persona di Saakashvili, dall’altra la quasi totalità dell’opposizione politica. Le accuse principali rivolte contro il capo dello Stato sono fondamentalmente due. La prima è relativa alla progressiva degenerazione autoritaria dell’esecutivo che – è la tesi dei manifestanti – sta trasformando il paese in una sorta di grande prigione (ogni tenda simboleggia una cella). La seconda è volta a denunciare la sottovalutazione governativa delle conseguenze politiche ed economiche del conflitto con la Russia dell’agosto 2008. Saakashvili, da parte sua, non ha fatto alcuna concessione agli oppositori. È stato ri-eletto presidente appena un anno fa, con una solida maggioranza (53%), in elezioni che hanno sostanzialmente soddisfatto i criteri democratici posti da OSCE e Unione Europea. Può inoltre fare affidamento su un’ampia maggioranza parlamentare, sufficiente per un sereno lavoro legislativo. Se il massimalismo dell’opposizione – che reclama a gran voce le dimissioni del capo dello Stato – le ha consentito, sino ad oggi, di restare coesa, esso appare incapace di proporre un reale percorso programmatico comune. Non esiste un’agenda di lavoro per l’eventuale post-Saakashvili, così come non è emersa una leadership all’interno del conglomerato policentrico dell’opposizione. E questo, in un paese che vive una delicata fase di transizione rispetto ad un passato ingombrante, è un fattore tutt’altro che secondario. Si tratta di evitare un vuoto di potere e l’indebolimento delle istituzioni democratiche.

La crisi istituzionale è iniziata molto prima del 9 aprile 2009. Le proteste contro la leadership di Saakashvili sono cominciate nel novembre 2007. In quell’occasione il presidente ha represso duramente le manifestazioni, proclamando lo stato di emergenza: negli scontri con le forze di polizia si sono contati più di 500 feriti e il governo ha sospeso la programmazione di due canali televisivi, accusati di sostenere i partiti di opposizione. Il successivo ricorso alle urne ha sancito la vittoria di Saakashvili alle presidenziali e del suo partito alle politiche. Di fronte allo stallo attuale non sembra esserci speranza di una soluzione nel breve periodo. L’11 maggio scorso Saakashvili si è incontrato per la prima volta dall’inizio della crisi con esponenti dell’opposizione, ma sui due fronti è prevalso il massimalismo e la volontà di rifiutare qualsiasi compromesso. È emersa, però, una differenza di accenti all’interno dell’opposizione tra chi rifiuta pregiudizialmente il dialogo con il presidente e chi, invece, sostiene il negoziato per ottenere dimissioni ed elezioni anticipate. La prima posizione è rappresentata da Nino Burjanadze (fino a maggio 2008 presidente del parlamento) e dal suo partito, Movimento democratico – Georgia Unita, in passato alleato di Saakahsvili. La seconda è incarnata da Irakli Alasania e dalla sua federazione di destra Alleanza per la Georgia, che ha giudicato l’incontro con Saakashvili un primo, benché timido, passo verso la risoluzione dello stallo. Nonostante la complessità del quadro politico, dalle manifestazioni in corso è possibile trarre un segnale di cauto ottimismo. Rispetto al 2007 il livello di violenza è stato sostanzialmente inferiore. Sino a oggi l’esecutivo ha dimostrato di voler limitare la portata della reazione, mentre i partiti di opposizione dimostrano di essere in grado di controllare i propri militanti. Un barlume di speranza in un paese che si presenta ormai come il delicato crocevia dei rapporti tra Unione europea, Nato e Russia.