L’irresistibile profumo dei gelsomini. La sollevazione popolare in Tunisia si è propagata su altre piazze in rivolta, come in Egitto, per una nuova clamorosa fase di transizione democratica. I casi nazionali sono molto diversi fra loro e, passata la frenesia del momento, lo si vedrà meglio, ma è pur vero che il messaggio venuto da Tunisi è apparso subito semplice, dirompente, esportabile: è possibile ribaltare lo scetticismo in rivolta e dire “basta” (come già nella parola d’ordine dell’elitario movimento democratico attivo in Egitto dal 2004: Kifaya, traduzione di “Ya basta”). Ma la semplificazione finisce qui. Non si possono liquidare, solo passandoli sotto il nome di leader incollati alle poltrone (di un Ben Ali o di un Mubarak), decenni di trasformazioni sociali e culturali che l’Europa non ha voluto vedere e considerare pienamente: la trasformazione dei paesi arabi del Mediterraneo in società nazionali giovani e moderne, molto diverse fra loro e gravate da disequilibri le cui ragioni di fondo risiedono più nelle vicende locali e nelle logiche della globalizzazione e della modernità che non nelle abusate (in Europa) categorie teoriche dell’islamismo o in quelle pragmatiche, ma ottuse, della “sicurezza”. Le vicende di queste settimane dimostrano già che uno strabismo europeo che vede solo Islam e sicurezza non è in grado di comprendere quel che accade a poca distanza; e probabilmente anche che, sotto il profilo delle relazioni sul Mediterraneo, queste rivolte chiudono la stagione targata 11 settembre.

Vincoli di alleanze e interdipendenze internazionali funzionano ovunque, non solo a Tunisi, e si fa torto a quelle società quando si chiamano in causa sempre e solo gli Usa o le cancellerie europee per spiegare i processi locali. Negli anni ’70 e ’80 altri moti sociali, diversi da quelli di oggi, avevano aperto in Africa del Nord la stagione della transizione democratica, dopo le indipendenze. Le speranze di allora hanno poi subìto due battute d’arresto: la prima negli anni Novanta, alimentata dalla paura di derive radicali dell’islamismo politico (in questa fase, la feroce guerra civile scoppiata in Algeria dopo le prime elezioni pluraliste del 1990-91 funzionò da potente e oscuro deterrente); la seconda volta dopo il 2001, per l’impatto tremendo e complesso che la crisi dell’11 settembre ha avuto per quasi un decennio su tutta l’area (anche se in Europa si fatica a comprendere che il terrorismo di Al-Qaida, o chi per lei, ha seminato terrore e vittime fra i cittadini d’Africa del Nord come fra gli europei). Ma la transizione democratica – espulsa dai sistemi politici – ha continuato a vivere dentro le società.

La situazione di stallo a Tunisi non era un mistero per nessuno, il caso tunisino aveva prodotto da anni la sua letteratura di riferimento (dal Notre ami Ben Ali di N. Beau e J.P. Tuquoi, a Une si douce dictature di Taoufik Ben Brik o, prima ancora, Le supplice tunisien di Manai). Dopo più di vent’anni (dal 1987), si attendeva la fine del regime per ragioni anagrafiche (Ben Ali ha 75 anni). Non è andata così: di un despota si può finire per tollerare ogni abuso, ma quasi mai l’umiliazione della sua pretesa di trasferire ad altri il potere dispotico (che siano affini che agiscono dietro la sua firma, come a Tunisi, o eredi investiti, come al Cairo). Così, il clima è sembrato cambiare quando il presidente tunisino ha manifestato, solo pochi mesi fa, l’intenzione di ricandidarsi nel 2014 (quando avrebbe avuto 78 anni). L’annuncio, fatto con 4 anni d’anticipo, voleva ipotecare il futuro ed era probabilmente il frutto di uno scontro sotterraneo e della volontà rapace – del clan presidenziale e dell’ampia cerchia di beneficiati dal regime – di scongiurare ogni cambiamento. Anche qui, un’analogia con l’Egitto. Solo la spaccatura interna ai poteri che governavano lo Stato pare oggi poter dare conto della fragilità del sistema e della rapida fuga di Ben Ali, ormai insicuro nel suo stesso apparato (la fretta ha sorpreso molti, in Tunisia, e l’ultima difesa, alla vigilia, era stata: “non mi ricandido più”). La rigorosa condotta dell’esercito sulle vie di Kasserine, nei giorni cruciali della sfida, ha offerto per la prima volta alla popolazione il segnale di una svolta. Moderno, ben addestrato, con i quadri più alti formati in molti casi in accademie statunitensi, l’esercito è cresciuto con la nazione e la storia della repubblica ed è stato esemplare nel profilo basso, nella scelta decisiva (non sparare sui manifestanti), nella fedeltà repubblicana e nel servizio alle istituzioni, e non alla politica. Nella Tunisia di Ben Ali, il generale Rachid Ammar (capo di Stato maggiore dell’esercito) non era un uomo di corte del capo, e non era il solo. L’attitudine dell’esercito dice molto su come è cambiata tutta la Tunisia durante l’era Ben Ali, e nonostante Ben Ali. Il suicidio di un disoccupato di Sidi Bouzid non è rimasta una tragedia familiare come altre.