Il passo lieve di Benedetto XVI in Terra Santa. Investito dalla stessa stampa cattolica, su sollecitazione della curia romana, del ruolo di «pellegrino di pace», e come tale presentatosi all’esordio del suo non facile viaggio in quel lembo di terra mediorientale che faticosamente assomma la Giordania, i Territori palestinesi e Israele, Joseph Ratzinger si è dovuto attivamente impegnare nel mantenere un difficile equilibrio tra le parti.

Il cerimoniale vaticano si era peraltro adoperato, dopo lunghissime ed estenuanti trattative a fare sì che nessun ostacolo si sovrapponesse a quello che doveva costituire un tentativo per ricucire rapporti in parte laceri. Per questo era stato espunto ogni elemento che potesse frizionare con tale obiettivo, rubricando le ragioni stesse della presenza di Ratzinger ad un atto di ispirazione spirituale e di devozione religiosa. Insomma, dei “due corpi” del sovrano oltreteverino, quello politico, come massima autorità della Città del Vaticano, e quello religioso, in quanto massimo leader spirituale della comunità cattolica, si era deciso senz’altro di privilegiare il secondo. Proprio per questo il viaggio presentava fin dall’inizio dei coni d’ombra che l’hanno poi concretamente connotato fino alla sua conclusione, imponendo a Ratzinger, per non scontentare nessuno, di non accontentare del tutto alcun interlocutore.

In Giordania ha tessuto un dialogo con l’Islam cosiddetto “moderato”, a partire da quello rappresentato dalla dinastia hascemita, che è anche proprio ad una parte dei regimi al potere nella regione, attenti agli equilibri interni ma scarsamente rappresentativi dell’evoluzione in atto nell’intero scacchiere mediorientale. Ha evocato quindi la forza morale dei monoteismi ma è stato bene attento a non toccare gli aspetti sociali della crisi delle società arabo-musulmane. L’islam “militante”, assai poco facilmente riconducibile alle ragioni della mediazione, ha enfatizzato i pronunciamenti del Papa a favore dei palestinesi condannando tutto il resto, a partire dal fatto che non si fosse recato a Gaza.

Altra questione aperta era il rapporto con l’ebraismo, volutamente sovrapposto ai legami con lo Stato d’Israele. Ancora le recenti polemiche sui lefebvriani, e sul negazionismo del vescovo Williamson, avevano mantenuto accesi i fuochi della polemica. Joseph Ratzinger è parso a molti ai limiti della reticenza. In ciò già scontava un “handicap tecnico di partenza”, per così dire, essendo un Pontefice tedesco e non polacco, come invece quel Wojtyla, che quando nel 2000 si recò in Israele raccolse l’entusiasmo di tutti, anche perché seppe comunicare quel che voleva essere, ossia un europeo che portava ancora su di sé i segni dell’occupazione tedesca del continente come della sua patria. Il discorso tenuto allo Yad Vashem, il museo-memoriale della Shoah, brillava assai più per le omissioni che non per le affermazioni. Congedandosi Benedetto XVI ha parlato del Terzo Reich come di un «regime senza Dio» senza mai nominare i nazisti. Peraltro gli stessi quotidiani israeliani, come Ha’artez, il Jerusalem Post, Maariv hanno giudicato con ben poca indulgenza i ripetuti richiami, rinnovati durante la seconda metà della sua visita, contro il muro perimetrale che divide Israele dai Territori palestinesi.

Un terzo punto era il rapporto con le comunità cristiane, tormentate da un depauperamento demografico che è il segno della loro lievitante marginalità rispetto alle circostanti società, giovani, tumultuose e in rapido accrescimento. Il Papa ha voluto portare parole di conforto ma ha incontrato un entusiasmo molto contenuto, resi emblematico soprattutto dal numero ridotto di pellegrini e di fedeli presenti alle messe pubbliche (un rapporto di 1 a 3 rispetto al viaggio di Giovanni Paolo II). Ha posto l’accento sul dialogo interreligioso (i «valori comuni») che se a Roma ha un significato nelle enclave cristiane rischia di essere declinato nei termini di pura desistenza dinanzi alla pressione soverchiante delle altre comunità.

Un bilancio di massima cosa può offrirci, allora? «Tunica bianca» - così il Pontefice è stato soprannominato dalla stampa israeliana – ha offerto comprensione ai palestinesi, incassando il loro sostanziale assenso. Ha stabilito un ponte con la casa regnante giordana alla quale, con tutta probabilità, guarderà anche in futuro come ad un interlocutore privilegiato. Quanto ai cristiani in «Terra Santa» ha potuto offrire ben poco, se non la sua temporanea presenza, registrando il declino del loro insediamento. Per gli israeliani, infine, la questione è rimasta in sospeso. Se le autorità di Gerusalemme hanno mostrato apprezzamento per la visita, per i cittadini dello Stato “ebraico” la visita è passata quasi inosservata. Porterà turisti, si domandavano alcuni, guardando con preoccupazione il calo delle presenze anche a causa della crisi economica internazionale? Insomma, l’impressione è che il passo di Ratzinger sia stato così lieve da non lasciare alcuna impronta.