L’anima perduta di Mitrovica. Gli ultimi ostacoli a un pieno riconoscimento dell’indipendenza kosovara stanno cadendo. A fine luglio la Corte Internazionale di Giustizia ha decretato che la dichiarazione unilaterale di indipendenza con la quale il Kosovo si è affrancato nel febbraio del 2008, infliggendo un colpo forse definitivo alle già stanche rivendicazioni serbe, non è illegale.È iniziata dunque una nuova stagione per il Paese e la voglia di guardare avanti è palpabile per le strade della neo-capitale Pristina. Ma se la “primavera” kosovara apre scenari finora impensabili per questa terra, le ambizioni di Mitrovica, mortificate dalla condizione in cui la città è sprofondata negli anni, non sembrano destinate a una simile prospettiva. Mitrovica sorge a pochi kilometri dal confine tra Kosovo e Serbia ed è un luogo emblematico dei Balcani. Per decenni, ai tempi della Jugoslavia, è stata una prospera città mineraria, simbolo dell’ideologia socialista e della capacità conciliatrice di Tito. Le tensioni distruttive degli ultimi due decenni erano, infatti, ben controllate e lontane dal diventare esplosive. Con l’ascesa al potere di Milosevic, Mitrovica si è trasformata rapidamente in un contenitore in cui si sono annidate le ragioni dell’odio serbo-kosovaro e in cui è germogliato il seme del conflitto. A partire dalla fine degli anni ’90, la guerra e le violenze che sono seguite hanno letteralmente spaccato la città in due. Il fiume Ibar è divenuto così un confine nel centro della città, ai lati del quale si aprono due mondi antagonisti: a sud la Mitrovica albanese-kosovara, a nord la Mitrovica serba. Passare sull’altra sponda, da qualsiasi lato del fiume ci si trovi, significa ora entrare in una terra “straniera” in cui le persone parlano un’altra lingua, professano un’altra fede, sventolano un’altra bandiera. Le cronache degli ultimi giorni testimoniano ancora una volta dell’ostilità che intercorre tra le due parti della città, raccontando degli ennesimi scontri avvenuti in prossimità del ponte che le collega. Man mano che l’antagonismo etnico è cresciuto di intensità, l’economia locale è inevitabilmente precipitata nella paralisi dei giorni nostri.

L’enorme complesso minerario di Trepča – che per gran parte del ‘900 aveva rappresentato la principale fonte di ricchezza e lavoro – è ora quasi totalmente in rovina. Stime recenti indicano che l’80% della popolazione attiva è senza lavoro. Il gigante industriale è in crisi e nella sua agonia si trascina dietro la città che gli era sorta attorno. Oltre alla disoccupazione e all’impasse economica, Trepča ha lasciato un’altra eredità preoccupante: l’inquinamento. Il lascito più evidente è costituito da enormi cumuli di scarti industriali (di dimensioni superiori a quelle di un isolato cittadino), ammassati ai margini del centro abitato, da cui si disperdono nell’aria, e quindi penetrano nel terreno, polveri di metalli pesanti – soprattutto piombo. Lo svedese Thomas Hammarberg, commissario per i Diritti umani del Consiglio d’Europa, lo ha descritto come il più grande disastro ambientale dei Balcani.

Come spesso accade in situazioni drammatiche, la tragedia si accanisce sugli ultimi: ai piedi di uno di questi cumuli di rifiuti, in zone dove anche l’erba stenta a crescere, sono situati alcuni campi rom, nei quali vivono tra le 500 e le 700 persone. Le Nazioni Unite non hanno, infatti, trovato posto migliore dove collocare questi derelitti, ripudiati sia dai serbi sia dai kosovari-albanesi. La gente che vive in questi campi è vittima non solo del quotidiano avvelenamento cui è sottoposta, ma soprattutto dall’indifferenza dei policy-makers locali e internazionali. La sorte dei rom, sotto certi aspetti, ricorda il destino della stessa Mitrovica, città dimenticata da un Kosovo impegnato a guardare avanti. Tuttavia, sono in pochi a credere che il paese possa gettare le fondamenta di un futuro stabile abbandonando al proprio destino una delle sue principali città.

 

Questo articolo è stato scritto in collaborazione con Irene Biglino.