C’erano un volta i Servizi pubblici. Qualcuno, per la verità, c’è ancora. La tanto vituperata Sanità, ad esempio, sopravvive a tutte le ridenominazioni, regionalizzazioni, soppressione di ministeri, e anche ai pregiudizi metodicamente instillati nei cittadini dai media: cooperando con il sole, la pizza e il mandolino a fare degli italiani uno dei popoli più longevi al mondo. Persino la Scuola e l’Università pubblica, con rispetto parlando, (r)esistono, ritrovando in se stesse risorse da economia di guerra. Ma dopotutto si tratta di servizi pubblici essenziali, come la Difesa e la Sicurezza: se lo Stato rinunciasse a fornirli, tanto varrebbe dichiarare bancarotta.

Per un giudizio più meditato sulla situazione, invece, bisogna forse guardare altrove: a quelli che propongo di chiamare Servizi pubblici poco meno che essenziali (d’ora in poi SPPMCE), come le Poste e le Ferrovie. Sono questi, forse, gli indici più affidabili della qualità della nostra vita e più in generale del clima dell’epoca; è sul parametro degli SPPMCE, in particolare, che si devono valutare le promesse di modernizzazione rimaste unico contenuto o pretesto della politica, e in particolare l’ultima grande promessa, risalente a qualche anno fa: pagare di più, ma avere servizi migliori.

È della settimana scorsa la notizia che il postino non suonerà più alla nostra porta, né una volta né due: e quindi scordiamoci, oltre alle scene di sesso bollente con Jessica Lange, anche uno degli SPPMCE cui eravamo più affezionati. Prima in alcune province, poi probabilmente in tutto il Paese, gli utenti, o clienti od ostaggi delle Poste dovranno dotarsi di cassette esterne, esposte alle intemperie, alle appropriazioni indebite e ai vandalismi; seguirà, accolta come una liberazione, la soppressione del servizio. Era ora: questi sviluppi non contribuiranno forse al nostro comfort, ma hanno l’ineluttabile pregio della chiarezza. Del resto già adesso, per i nostri figli piccoli, il postino era un personaggio da favola, come il maniscalco o lo spazzacamino.
Un altro SPPMCE cui da quest’anno dovremo rinunciare sono i Club Eurostar, chiusi anche in stazioni non proprio secondarie come Genova, Venezia-Mestre e Trieste. Già isole di civiltà per chi ancora si avventura nei gironi infernali di Trenitalia, i Club si erano da tempo trasformati, nonostante il vano prodigarsi degli addetti, in un’elaborata presa per i fondelli dei soci. A Genova resiste ancora uno sportello dedicato, oltre il quale si intravedono gesticolare, come in un acquario, gli addetti con cui avevamo familiarizzato a figura intera. Per qualche tempo ancora, forse, i soci superstiti si aggireranno intorno allo sportello, anelando a una sala d’aspetto o a un tè alla pesca; poi si siederanno accanto ai binari come sulla riva del fiume, aspettando l’arrivo di compagnie ferroviarie straniere.

Cosa c’insegnano queste due piccole vicende, entrambe relative ai SPPMCE? Forse semplicemente questo: che le illusioni della modernità, prima e seconda, e in particolare l’offerta di pagare di più per avere servizi migliori, che accompagnò la privatizzazione di Poste e Ferrovie, sono davvero promesse da marinaio. Il servizio migliora la prima settimana, dalla seconda si paga per avere lo stesso servizio di prima, e un mese dopo si sopprime ogni scelta lasciando solo il servizio più costoso: do you remember Posta prioritaria? Evviva il medioevo prossimo venturo, che gli estimatori del genere si accaniscono a chiamare postmoderno.