La «potenza civile» tedesca in cammino verso la «normalità». All’indomani della caduta del muro di Berlino, furono in molti a evocare il timore che una Germania nuovamente riunificata e potenzialmente egemone sul continente sarebbe potuta ricadere nella tentazione di intraprendere una nuova «via speciale» (Sonderweg). Affrancandosi dalle obbligazioni europee e atlantiche che erano state contratte nel secondo dopoguerra e, addirittura, dando adito a nuovi impulsi egemonici neo-nazionalistici. Come è evidente, tali timori si sono rivelati totalmente infondati. Non si può, d’altra parte, nemmeno negare che la Germania di oggi appare molto diversa da quella del 1990. Ripercorrere il percorso tracciato negli ultimi venti anni sulla scena internazionale, sia pure a grandi linee, può quindi fornirci qualche utile elemento per comprendere la direzione verso cui la nuova Germania si sta muovendo.

In questa prospettiva, il trattato di Maastricht assume un significato storico che va ben al di là di quello che gli è stato attribuito dai sostenitori della tesi dello «scambio geopolitico»: all’epoca la classe dirigente tedesca non si limitò infatti a barattare la propria sovranità in materia di politica monetaria in cambio del sostegno degli altri paesi europei alla riunificazione, ma si adoperò concretamente affinché la costituenda Unione europea potesse tendere, quanto meno nelle intenzioni, verso un soggetto più coeso, autorevole e incisivo sulla scena internazionale. È in questo contesto che si affermò il paradigma della «potenza civile», una categoria di analisi che all’inizio degli anni Novanta venne utilizzata per caratterizzare una particolare identità di politica estera della Germania contemporanea, ispirata non più dalle logiche dello stato di potenza, bensì da principi quali il multilateralismo, la sicurezza collettiva, il rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani ecc. Le crisi internazionali del periodo post-unitario avrebbero tuttavia fatto emergere anche i limiti, le difficoltà e le contraddizioni della Germania «potenza civile». Particolarmente controversa all’inizio degli anni Novanta fu la gestione della prima crisi jugoslava, nel corso della quale il governo tedesco mostrò un’inedita assertività nel tentativo di convincere gli altri paesi europei a riconoscere immediatamente le repubbliche secessioniste di Slovenia e Croazia. Per sostenere fino in fondo le sue posizioni, e con queste la legittimità di un intervento militare contro la Serbia di Slobodan Milosevič, i tedeschi avrebbero dovuto rimuovere il divieto costituzionale per le operazioni «out-of-Nato-area», dietro il quale il composito fronte dei non-interventisti finì invece, come era già accaduto all’epoca della prima guerra del Golfo, per trincerarsi.

In quell’occasione si percepì lo scarto tra una Germania in apparenza sempre più consapevole del proprio peso sulla scena europea e la sua perdurante indisponibilità (o difficoltà) a farsi carico di maggiori oneri internazionali. Tale contraddizione fece il paio con le ambiguità di una comunità internazionale che auspicava, e al contempo temeva, il ritorno della Germania alla «normalità», ossia a una condizione in cui i tedeschi si sentissero liberi di esprimersi, senza i complessi di colpa ereditati dal passato, come gli altri soggetti delle relazioni internazionali. La prima partecipazione della Germania dalla fine della seconda guerra mondiale a un’operazione militare avvenne nel 1999, nel corso della crisi del Kosovo. Allora fu il socialdemocratico Schröder, un ex sessantottino, ad assumersi questa responsabilità. Tuttavia nel 2002, verso la fine del suo primo mandato di governo, Schröder scelse di defilarsi dalla scena internazionale e di puntare quasi esclusivamente su uno stretto rapporto di collaborazione con la Francia. Sotto l’impeto delle pressioni della campagna elettorale, Schröder si spinse ad annunciare che nessun governo da lui presieduto avrebbe sostenuto politicamente, militarmente o finanziariamente un’«avventura americana» in Iraq – neppure in caso di mandato Onu, ritenuto comunque improbabile. E, una volta scoppiata la guerra, la Germania si fece promotrice, insieme alla Francia, di un documento di protesta contro l’intervento militare in Iraq, che ebbe l’effetto di portare in superficie le divisioni interne alla stessa Unione europea.

Divenne chiaro allora – e lo si sarebbe compreso ancora meglio dopo la campagna elettorale congiunta di Chirac e Schröder nel referendum francese per la ratifica della nuova Costituzione – che l’asse franco-tedesco, storico motore dell’integrazione, non avrebbe avuto nell’Europa allargata la legittimazione a governare che aveva avuto in passato.

Su questo sfondo risulta più facile cogliere anche i cambiamenti che hanno segnato negli ultimi cinque anni la politica estera tedesca. Nel rapporto con gli Stati Uniti, la Cancelliera Angela Merkel è riuscita, mostrandosi una convinta alleata nella lotta al terrorismo internazionale, a ricucire lo strappo provocato da Schröder, ma allo stesso tempo si è sentita orgogliosamente libera di criticare l’unilateralismo della presidenza Bush e di definire pubblicamente inaccettabile il caso Guantanamo. Ha inoltre rinnovato il legame privilegiato con Parigi, prendendo però nettamente le distanze dalla visione multipolare di Chirac, che con la sua logica competitiva aveva contribuito a esasperare le divisioni nelle relazioni transatlantiche e comunitarie. Sul versante orientale, la Cancelliera non si è mostrata meno attenta del suo predecessore alla centralità strategica della collaborazione con la Russia; tuttavia anche qui Merkel, figlia di un pastore protestante della Germania Est, ha assunto sul tema dei diritti umani e su altri aspetti oscuri della gestione Putin una posizione assai meno condiscendente, facendo peraltro guadagnare al suo paese nuovi consensi presso i partner dell’Europa orientale. In seno all’Unione europea, infine, la Germania ha ripreso - sia pure non sempre in maniera convincente come, per esempio, nella recente crisi greca - a esercitare un ruolo di leadership, dando nel 2005 un contributo decisivo al compromesso sul bilancio comunitario, rianimando, durante la presidenza tedesca del semestre europeo nel 2007, il processo costituzionale europeo che si era interrotto e facendo ripartire la locomotiva tedesca nel mezzo di una grave crisi finanziaria.
A vent’anni dalla riunificazione, la «potenza civile» tedesca sembra, dunque, aver superato almeno una parte delle contraddizioni e delle difficoltà che hanno segnato il percorso tracciato dopo la Wende. E così anche l’obiettivo della «normalità» appare più vicino.

[Si veda anche: G. D’Ottavio, Lo “stato della Grande coalizione” tra passato e presente, in S. Bolgherini e F. Grotz (a cura di), La Germania di Angela Merkel, Bologna, Il Mulino, 2010]