La Germania corre da sola. Vent’anni dopo l’unificazione delle due Germanie si ricomincia a parlare di modello tedesco come alternativa di sistema al capitalismo di marca anglosassone. Il capitalismo renano aveva dato grande prova di sè nella ricostruzione post-bellica e negli anni Settanta il “Modell Deutschland” era diventato un sistema istituzionale studiato ed apprezzato.I suoi fondamenti istituzionali erano (e sono) istituzioni economiche inclusive, relazioni industriali assai avanzate e paritarie (ivi incluso la cogestione delle imprese d’accordo con il sindacato), intervento statale mirato, politiche macroeconomiche all’insegna del rigore finanziario ed economia aperta orientata verso l’export, soprattutto di beni ad alto valore aggiunto. I conflitti sociali sono stati storicamente molto bassi e la produttività del lavoro alta mentre l’inflazione è sempre stata tenuta sotto controllo.

Questo schema era però sembrato andare in crisi negli anni Novanta a seguito dell’unificazione tedesca, i cui problemi furono assai maggiori di quelli inizialmente preventivati, nonostante la Ddr fosse probabilmente l’economia più avanzata tra quelle del blocco sovietico. Il cambio del marco a quota di 1:1 contro quello della Ddr portò a un immediato apprezzamento della valuta nei lander orientali che, unito ad una produttività declinante, rese l’ex Ddr poco attrattiva per gli investitori. Senza il contributo del capitale privato, fu lo Stato tedesco a dover investire massicciamente, drenando le finanze dalla parte occidentale verso quella orientale. I risultati non furono tutti insoddisfacenti dal punto di vista economico, pur scontentando sia i cittadini a Ovest dell’Elba sia quelli a Est. Ma l’economia tedesca smise di essere la locomotiva d’Europa. Per sopperire a queste difficoltà si pensò di ristrutturare il modello economico, ben oliato ma in parte inadeguato alle nuove esigenze dell’economia internazionale, o almeno così si credeva. Di fronte alla flessibilità del mercato americano e ai successi di Usa e Gran Bretagna, anche la Germania rimase affascinata dalle promesse del libero mercato e furono i governi a guida Spd ad iniziare una serie di riforme del mercato del lavoro e di riduzione dello storicamente forte Welfare State tedesco, cercando di giocare su deregolamentazione e competizione sui prezzi.

L’approccio però più conservativo alla de-regulation finanziaria e la conseguente assenza della bolla immobiliare – che aveva drogato le economie di Spagna ed Inghilterra – aveva attirato molte critiche verso il governo tedesco, che si trasformarono però in plausi allo scoppio della crisi finanziaria. La recessione colpì comunque la Germania, ma più a causa del contagio internazionale che per problemi strutturali. I problemi di liquidità delle banche anglosassoni raggiunsero presto Francoforte riducendo l’accesso al capitale internazionale. Inoltre, un'economia che basa la sua forza sull’export non poteva non soffrire della recessione a livello internazionale. Il Pil tedesco si ridusse del 5%, un dato in linea con quello degli altri paesi dell’Europa continentale. Contemporaneamente, però, la disoccupazione aumentò solo marginalmente (lo 0,3%). Le istituzioni del capitalismo tedesco erano entrate in funzione per contenere la crisi economica. In questi anni, il governo ha sostenuto l’occupazione ancora prima che essa si trasformasse in disoccupazione, finanziando il lavoro part-time ed estendendo tale intervento di supporto fino a 24 mesi (con un incremento del numero di lavoratori interessati da 70.000 nel 2007 a 1 milione e 400 mila unità nel maggio 2009). Allo stesso tempo, il modello di cogestione delle imprese ha dato un contributo decisivo alla salvezza dei posti di lavoro e alla ripresa dell’economia tedesca, con sindacati e imprenditori responsabilmente coinvolti nel rilancio delle imprese.

Certo i problemi non sono finiti, a inizare dal ruolo che vorrà assumere la Germania in una Unione europea che ha perso potere e appeal ed è priva di un piano strategico di sviluppo. Il rischio è che la Germania punti a diventare una grande Svizzera, un’isola felice, solida e forte per resistere alle difficoltà della globalizzazione ma disinteressata alla situazione dei paesi che la circondano. In questo caso l’Europa sarebbe destinata inevitabilmente a fallire, ma può un paese come la Germania davvero permettere (e permettersi) che ciò accada?