Goodbye Bonn. Il 3 ottobre 2010 la Germania festeggia i vent’anni dalla riunificazione, e guarda a se stessa attraverso il passaggio della leadership del governo tedesco tra le mani di tre personalità molto diverse l’una dall’altra: Helmut Kohl, Gerhard Schröder, Angela Merkel. La memoria condivisa attorno all’era di Kohl è quella della riunificazione tedesca, della preghiera laica mano nella mano con Mitterrand, dell’abbraccio con Gorbaciov: strano destino per un leader, renano in tutti i sensi come lo era Adenauer, che durante la sua vita politica aveva dovuto lottare per imporre la sua visione di una Germania atlantica e unita sia agli occhi della Francia (che non la voleva) sia alla Russia (che non la poteva impedire), e che era salito alla ribalta della politica tedesca per la sua opposizione alla risoluzione del governo a guida Spd di Helmut Schmidt di vietare l’installazione degli “euromissili” sul suolo tedesco. Cancelliere dal 1982 al 1998, della Germania Federale prima e della Germania unita poi, a capo di coalizioni guidate dalla Cdu/Csu insieme ai liberali, Kohl non fu solo, dal punto di vista della politica estera, colui che, pur rimanendo ancorato fermamente all’Ovest, continuò la Ostpolitik incontrando nel 1987, per la prima volta nella storia, il capo della Germania Est, Honecker: Kohl fu anche in quel periodo il normalizzatore di un partito, i liberali della Fdp, da sempre vicini all’anima nera e völkisch della Germania più di quanto essi non vogliano riconoscere (a meno di non ricordare le esternazioni antisemite del leader del partito, Jürgen Möllemann, morto in un non chiarito incidente di paracadutismo nel 2003). Battuto alle elezioni del 1998 dalla coalizione rosso-verde di Schröder e Fischer, a partire dal 1999 Helmut Kohl si ritira gradualmente dalla vita politica, anche a causa dello scandalo dei fondi neri del partito, e di una giovane Angela Merkel che trova l’occasione per eliminare il padre nobile del partito – il primo nella lista dei patriarchi Wessis (occidentali) della Cdu che la nuova leader Ossie (orientale) riesce a mettere da parte.

Gli anni del governo rosso-verde (1998-2005) sono all’insegna del duo Schröder e Fischer, più che del solo cancelliere. I due ex leader della Germania sessantottina rappresentano un cambio di coalizione di governo, ma anche un cambio generazionale e culturale di grande portata: tanto più se vista insieme allo spostamento della capitale dalla Renania cattolica, Bonn, alla capitale del secolarismo europeo, Berlino – uno spostamento votato a strettissima maggioranza dal Parlamento di Bonn nel giugno 1991 e avvenuto nell’estate 1999. A una politica estera di nuove relazioni con la Russia (che a fine carriera politica Schröder riuscirà a mettere a frutto come consulente di compagnie petrolifere), si accompagnano le tensioni con gli Stati Uniti di G.W. Bush e la precoce opposizione alla guerra in Iraq, grazie alla quale la Spd e i Verdi vincono di nuovo le elezioni nell’ottobre 2002. La coraggiosa agenda di riforme sociali e del mercato del lavoro (“Agenda 2010 - Hartz IV”) costa alla Spd un’emorragia di iscritti e di voti, e la nascita di un partito alla sua sinistra, con la rottura del tabù costituzionale tedesco, per il quale la Spd era l’argine a sinistra del quale nessuna forza politica poteva sfuggire alla qualifica di anti-sistema. Il “Partito del lavoro e della giustizia sociale” (Wasg) e il “Partito del socialismo democratico” (Pds, erede legale della partito-Stato della Sed nella Ddr) si riuniscono nel 2005 sotto la sigla “Die Linke”, evoluzione bipartitica del dualismo interno alla Spd, tra il riformismo di Schröder e il massimalismo di Oskar Lafontaine (già candidato della Spd a cancelliere nel 1990, l’anno della riunificazione).

La figlia del pastore luterano Angela Merkel, perfetta russofona e allieva modello nelle scuole della Ddr poi ricercatrice di chimica, sale alla ribalta della scena politica nel 1990, con la riunificazione: in breve “la ragazza” sostituisce l’autore di quell’epiteto tra l’affettuoso e il paternalistico, Helmut Kohl. Segretario generale della Cdu nel 1998, nel 2002 Merkel non riesce a farsi nominare candidato alla cancelleria dai patriarchi occidentali e bavaresi del partito, che le preferiscono il governatore della Baviera, Stoiber. In un partito ancora largamente dominato da questo patriarcato (Koch in Assia, Rüttgers nel Nordreno-Westfalia, Wulff nella Bassa Sassonia) Merkel naviga abilmente durante il suo primo governo di “grande coalizione” con la Spd, dal 2005 al 2009, riuscendo ad eliminare due concorrenti all’interno del partito: dimissionatosi Koch, fatto eleggere alla presidenza della Repubblica Wulff. Più incerto sembra il suo secondo governo iniziato nell’ottobre 2009, la coalizione nero-gialla coi liberali guidati da Guido Westerwelle, ora ministro degli esteri di una Germania che ha reagito alla crisi finanziaria con spinte isolazioniste, e che vede in Sarkozy un partner inaffidabile e, quel che è peggio, al declino. Ma dall’altra parte dello spettro politico la Germania non sta meglio: dopo una serie di segreterie di breve durata, la Spd è rimasta vittima del caso di Thilo Sarrazin, il socialdemocratico e membro del board della Bundesbank, che col suo best seller anti-immigrazione, Deutschland schafft sich ab (“La Germania si distrugge da sé”) ha messo in evidenza non solo la fine del dogma integrazionista-lavorista della Germania post-nazista, ma anche la crisi del multi-kulti, cioè delle aspirazioni multiculturali della Germania di Berlino e della socialdemocrazia post-marxista in modo particolare. Se Merkel aveva chiamato la grande coalizione “il governo dei piccoli passi”, nella Germania del governo Cdu/Csu-Fdp i passi sembrano essersi accorciati ancora di più.