Lo scontro (virtuale) di civiltà. La notizia proveniente da Vienna ha un che di comico e insieme di tragico. Negli stessi giorni in cui i “rimpatri volontari” dei rom decisi da un presidente francese in calo vistoso di popolarità riaccendevano in tutta Europa il dibattito sull’immigrazione e sui diritti delle minoranze, i liberalnazionali austriaci della Fpö, desiderosi di offrire il proprio fondamentale contributo alla discussione su come affrontare la sfida epocale rappresentata dall’immigrazione musulmana, dopo lunga e articolata riflessione prendevano infine una risoluzione altrettanto epocale. Quale? Un videogioco, denominato “Moschee bà bà” (un richiamo politically incorrect ad Alì Babà). Chi infatti si collegava con il sito della Fpö stiriana – il 26 settembre in Stiria si è votato per il rinnovo del Consiglio regionale – poteva partecipare a un’edificante attività ludico-politica reclamizzata sulla homepage: sullo sfondo della skyline di Graz, con tanto di torre dell’orologio, palazzi e chiese, comparivano improvvisamente vari minareti, uno dopo l’altro, con altrettanti muezzin che chiamavano i fedeli alla preghiera, con una cantilena che finiva con il sovrastare inesorabilmente la melodia tipicamente völkisch che fino a quel momento aveva accompagnato le mosse dell’incauto navigatore. Lo scopo del gioco era di “stoppare” con il cursore del mouse – non si usi, per cortesia, il verbo “sparare” o, peggio ancora, “abbattere”, se non si vuole apparire pregiudizialmente ostili – quanti più minareti possibile, con tanto di muezzin incorporati e destinati alla dissolvenza; ma lo sforzo era vano, la lotta impari: il gioco finiva con la vittoria dei minareti che, a dispetto di ogni intento purificatore, rinascevano compulsivamente moltiplicandosi, e solo a quel punto compariva il messaggio elettorale: “La Stiria è piena di minareti e di moschee”; per invertire la tendenza, “il 26 settembre vota per la Fpö e per il suo candidato capolista Dr. Gerhard Kurzmann”.

Interrogato sulla vicenda, Heinz-Christian Strache, capo nazionale del partito, ha preso le distanze da quella che ha definito una “iniziativa autonoma del leader stiriano”, dichiarando altresì di avere egli stesso rifiutato il medesimo “prodotto” che per la campagna per le elezioni di ottobre a Vienna gli era stato offerto dall’agenzia pubblicitaria svizzera produttrice del videogioco incriminato (la stessa che aveva curato la crociata anti-minareti nella Confederazione elvetica). Il dr. Kurzmann, invece, si è schermito, parlando di “tempesta in un bicchier d’acqua”, ma ha altresì ribadito la ferma volontà del suo partito di impedire l’islamizzazione dell’Austria. Intanto si levavano le proteste della comunità islamica austriaca e del suo presidente, Anas Schakfeh, ma anche di eminenti autorità religiose cattoliche, come Egon Kapellari, vescovo di Graz; i Verdi stiriani hanno presentato una denuncia per istigazione e vilipendio della religione, mentre la Procura della Repubblica di Graz ha aperto un’inchiesta che potrebbe portare alla richiesta di revoca dell’immunità parlamentare per Kurzmann. Il videogioco veniva nel frattempo oscurato. Tutto questo accade in un Paese in cui la libertà religiosa è un diritto costituzionale che come tale dovrebbe contemplare anche la possibilità di usufruire di luoghi acconci e degni per il suo esercizio, ossia, nel caso specifico, di moschee e non di capannoni dismessi, e dove la religione islamica è riconosciuta dallo Stato sin dal 1912 (data dell’annessione della Bosnia all’Impero austro-ungarico). Un Paese in cui i musulmani sono, dopo i cattolici, la comunità religiosa più numerosa (mezzo milione, di cui più della metà in possesso della cittadinanza), ben più di protestanti e ortodossi, ma dove, anche, esiste ormai un diffuso senso comune islamofobo e xenofobo, alimentato dalla propaganda dei partiti dell’estrema destra e da alcuni influenti tabloid. Non stupisce, allora, che nella Carinzia di Georg Haider si fossero messi avanti con il lavoro, proibendo già qualche anno fa la costruzione di minareti, ovviamente non per motivi religiosi, ma per ragioni urbanistiche.