Pechino mette la freccia. Ha stupito molti leggere che in cinque anni la Cina ha raddoppiato il suo Pil e ha raggiunto il Giappone, conquistandosi il secondo posto nella classifica delle economie più prospere del mondo. Nel secondo trimestre del 2010, il Pil della Repubblica popolare è salito a 1.336,9 miliardi contro i 1.288,3 del Sol Levante. Tokyo non è d’accordo, e ribatte segnalando che se si considera il Pil nominale, il Giappone è ancora davanti alla Cina. Anche se solo per 46 miliardi di dollari (2.578,1 contro 2.532,5). Molti osservatori sono rimasti un po’ sorpresi nel vedere come la Cina sia riuscita a chiudere il bilancio del primo semestre del 2010 con l’ennesimo successo, in un anno in cui alle difficoltà della crisi economica internazionale si sono aggiunte quelle interne, legate al crollo delle esportazioni (verso Europa e Stati Uniti) e alla conseguente instabilità sociale alimentata da una disoccupazione in crescita e dalle continue proteste nelle campagne e nelle fabbriche.

Il prossimo obiettivo di Pechino non potrà che essere quello di lasciarsi alle spalle il suo ultimo rivale, Washington. Il divario tra le due superpotenze (Pil di 5.000 miliardi di dollari e reddito medio di 3.600 dollari per la Cina; Pil di 15.000 miliardi di dollari e reddito medio di 46.000 dollari per gli Stati Uniti) resta ampio, e anche se Pechino non ha nessuna intenzione di rinunciare a questa impresa, dovrà fare molta attenzione ed evitare che gli equilibri nel Sudest asiatico evolvano in suo sfavore, un po’ come è successo per il Giappone.

Dagli anni ’50 agli anni ’80 è stata Tokyo a trainare lo sviluppo delle economie emergenti dell’Asia. I primi Paesi che hanno beneficiato dell’influenza positiva (e degli investimenti) del vicino giapponese sono stati Taiwan, Corea del Sud, Hong Kong e Singapore, poi sono seguite a ruota le altre nove nazioni del Sudest asiatico. La presenza nipponica in queste economie è ancora oggi importante, ma è evidente che un Paese la cui crescita ha subito un brusco rallentamento negli anni ’90, e che da allora non si è del tutto ripreso, attrae meno i nuovi emergenti rispetto a una Cina sempre pronta a investire in quello che ormai considera il suo ‘cortile di casa’.

La Repubblica popolare ha però un elemento di debolezza: il suo dinamismo economico e le sue ambizioni egemoniche fanno paura in Asia, dove i paesi più piccoli cercano da tempo un sistema efficace per controbilanciare questo gigante. Dal momento che New Delhi non può reggere il confronto con Pechino, è molto probabile che l’ennesimo passo indietro di Tokyo non favorirà il consolidamento della presenza cinese in Asia ma spingerà quest’ultima tra le braccia degli Stati Uniti. Anche perché da quando la Cina si sente forte e contemporaneamente indispensabile per il resto della regione, ha iniziato ad assumere atteggiamenti aggressivi su molte questioni. Come la rivendicazione della propria sovranità sulle isole del Mare della Cina Meridionale, contesa da decenni con Indonesia, Malaysia, Brunei, Filippine, Taiwan e Vietnam.

Mentre la Cina dismette i panni del ‘vicino buono’ e riprende a ragionare in termini di politica di potenza, il resto della regione non può che fare altrettanto. Il Vietnam ha rafforzato i legami con gli Stati Uniti, con cui sta per firmare un accordo di cooperazione militare, e sia l’Indonesia che il Laos sono pronti a seguire il suo esempio. Washington è stata a lungo criticata per essersi disinteressata dell’evoluzione degli equilibri asiatici, ma in assenza di alternative concrete all’interno della regione i membri dell’ASEAN sono pronti a concederle una seconda opportunità. Che l’amministrazione di Barack Obama è già pronta a cogliere al volo, per due motivi: evitare il rafforzamento della Cina nella regione, soprattutto in virtù dell’aggressività dimostrata da Pechino quando si è confrontata con Washington sugli equilibri della penisola coreana e dello stretto di Taiwan, e sfruttare le opportunità economiche che vengono dal Sudest asiatico. I tassi di crescita di Indonesia (+5,9%) e Vietnam (+7%) fanno gola all’Oriente tanto quanto all’Occidente. E se la Cina perderà il sostegno della regione potrà anche smettere di sognare di superare il Pil degli Stati Uniti entro la fine del decennio.