Il peso delle parole. Nelle giornate calde d’estate, in cui Beirut si riempe di turisti curiosi, i discorsi politici si infiammano. Sayyad Hassan Nasrallah, segretario generale del Partito di Dio (Hezbollah), uno dei principali partiti sciiti in Libano, continua a catalizzare la scena politica libanese e internazionale. Dopo gli scontri avvenuti martedì nel sud del Paese tra le IDF (Israeli Defence Forces) e l’esercito libanese, la voce della Resistenza, incarnata dal leader di Hezbollah, diventa affare di Stato. Ogni parola fa tremare l’equilibrio nel Paese dei cedri.
Il fatto che l’intera élite del governo libanese si trovi riunita ad ascoltare il discorso di Nasrallah concretizza la tensione che si respira. Infatti, non più tardi del 22 luglio, Nasrallah, nel suo precedente discorso pubblico, aveva lanciato un monito: “siamo coscienti del tunnel nel quale ci vogliono trascinare”. Il leader di Hezbollah si riferiva alle potenziali incriminazioni del suo partito per l’assassinio dell’ex Primo ministro Rafic Hariri, avvenuto il 14 febbraio 2005. Infatti, le prime accuse che avevano puntato il dito su quattro ufficiali libanesi, e implicitamente sula Siria, sono cadute, rilevando l’estraneità di quest’ultimi. Il nuovo compito del Tribunale Speciale per il Libano presieduto da Antonio Cassese dovrà quindi essere quello di presentare un documento riportante i nomi dei nuovi indagati entro la fine dell’anno. Nasrallah nei suoi discorsi ha affermato che, benché ancora nessuna incriminazione formale sia stata fatta, le accuse contro il suo partito siano nell’aria e ha aggiunto “non permetteremo a nessuno al mondo, quale che sia la sua importanza, di toccare la dignità della Resistenza”, accusando direttamente Israele di essere la mente dietro l’assassinio di Hariri. La presenza del Primo ministro in carica, Saad Hariri, a quest’ultimo discorso è il segnale del tentativo di distensione delle tensioni che avevano caratterizzato il discorso politico nelle ultime settimane. Il leader di Hezbollah, intanto, propone la creazione di un nuovo tribunale d’inchiesta formato da personale libanese e non più internazionale, affermando una possibile manipolazione di quest’ultimo da parte degli Stati Uniti e di Israele.
L’eventuale accusa di alcune frange dissidenti del Partito di Dio sembra infatti voler sollevare retoriche di più ampio raggio, in primis tra tutte quella dello scontro interno tra sunniti e sciiti. Il timore è che si voglia trasformare il Libano in un secondo Iraq. Infatti dopo l’inizio del conflitto iracheno si erano già avuti segnali di un aumento della tensione tra comunità sunnite e sciite nel nord del Paese. Si pensa che le accuse sarebbero un tentativo israelo-americano per indebolire Hezbollah, considerato dalle due potenze come un’associazione di stampo terroristico, piuttosto che di resistenza. Nel luglio del 2006, Israele aveva già tentato di eliminare Hezbollah attraverso un intervento armato durato 33 giorni e conclusosi con un cessate il fuoco, migliaia di morti civili e la distruzione di numerose infrastrutture, soprattutto nel sud del paese e nella periferia sud di Beirut.
Una possibile accusa di omicidio di un personaggio del calibro di Rafic Hariri, il cui mausoleo nel Down-Town di Beirut segna ancora la sua forte presenza, sarebbe alquanto infangante. Tale accusa nel 2005 aveva fatto scendere in piazza sotto una sola bandiera, o quasi, il popolo libanese, portando a quella che viene definita “rivoluzione dei cedri”, la cui conseguenza più visibile era stata il ritiro delle truppe siriane dopo un’occupazione pluridecennale. Accusa che probabilmente, se formulata, sarebbe volta a screditare Hezbollah, a ridurne il peso sia politico che ideologico, e a tentarne l’ennesimo disarmo.
Infatti dal cessate il fuoco del 2006, considerato come la prima vittoria del mondo arabo contro Israele, l’ammirazione e il sostegno per lo Hezbollah da parte dell’opinione pubblica sono cresciuti radicalmente. Una dimostrazione la si trova camminando per le strade di Dahya, periferia sud di Beirut, dove poster e striscioni continuano a moltiplicarsi, attraverso l’uso comune di marcare “fisicamente” il territorio con immagini di “martiri” e simboli partitici che decorano i muri ancora crivellati dai colpi di arma da fuoco.