La sera del 10 aprile 1991 c'era traffico in mare, al largo del porto di Livorno. La prima guerra del Golfo era appena terminata e alcune navi militari americane erano di ritorno alla vicina base di Camp Darby. Una in particolare, alle 22:49, lanciò un allarme: «This is Theresa, this is Theresa for the Ship One in Livorno's anchorage... I'm moving out, I'm moving out». Venticinque minuti prima un traghetto di linea diretto a Olbia, il Moby Prince, appena levati gli ormeggi si era scontrato con una petroliera, la Agip Abruzzo, e a quell'ora era avvolto dalle fiamme. Delle 141 persone a bordo, se ne salverà solo una, il giovane mozzo napoletano Alessio Bertrand. Le altre moriranno bruciate o asfissiate, la gran parte nel salone De Luxe dove si erano rifugiata per sfuggire alle fiamme.

In trent'anni di inchieste giudiziarie e parlamentari, la nebbia che avvolse il peggiore disastro navale della storia italiana dal Dopoguerra non si è mai diradata. Appurato che l'incidente non fu provocato da una distrazione del comandante e neppure dal fatto che l'equipaggio era impegnato a guardare in tv la partita di calcio tra Juventus e Barcellona, rimane un fitto mistero sulle sue reali cause. Le domande inevase attengono tutte a qualcosa che stava accadendo in quelle ore nel porto e che in tutta evidenza non avrebbe dovuto lasciare tracce. Chi era la misteriosa nave Theresa che annunciò il suo allontanamento in tutta fretta dopo l'incidente e la «nave uno» con la quale questa comunicava? Perché entrambe utilizzavano nomi in codice e dove sono finite dopo l'urto e le fiamme? A chi apparteneva la voce captata sul canale 16 della Capitaneria di Porto alle 22:20, cinque minuti prima dell'incidente, che sempre in inglese segnalava la presenza di una «passenger ship», una nave passeggeri? Come mai nei registri del porto di Livorno queste navi non risultano? Perché nessun radar ha visto l'impatto tra la petroliera e il traghetto?

Una spiegazione plausibile è che quella notte nello scalo livornese erano in corso delle operazioni militari e che per questo motivo quel tratto di costa toscana andava considerato come una sorta di zona civile di guerra, dunque con le regole dello Stato di diritto sospese di fatto. Non sarebbe una novità. Ogniqualvolta sono impegnati mezzi militari alleati, anche solo per esercitazioni, i riflettori si spengono e il segreto è d'obbligo. È accaduto anche durante la Seconda guerra del Golfo, quando per il carico e lo scarico di armi il porto è stato utilizzato come terminale della base di Camp Darby, e pure in quel caso la storia non sarebbe mai venuta a galla se i portuali non avessero fatto sentire la loro voce rifiutandosi di piegarsi alla sospensione di sovranità.

Quella sera, la Moby Prince, mentre usciva dal porto ha d'improvviso deviato dalla rotta comunicata, forse per evitare un ostacolo imprevisto. Si trattava di una nave americana? Era forse la stessa dalla quale è partita la comunicazione «the passenger ship»? Non si è però accorta della Agip Abruzzo, ferma in una zona nella quale non avrebbe potuto gettare l'ancora. Dopo l'incidente, le misteriose imbarcazioni che si trovavano nel porto invece di prestare soccorso si sono allontanate, facendo perdere le loro tracce. La mancata collaborazione da parte americana, anche in seguito, ha alimentato i sospetti che il tragico scontro non sia stato altro che un effetto collaterale di una guerra combattuta a migliaia di chilometri di distanza. Viceversa, la strategia del silenzio e dell'occultamento ha funzionato sul piano comunicativo, perché oggi nessuno, a parte gli addetti ai lavori, riconduce quell'evento all'invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein e alle bombe su Baghdad.

Ciò è avvenuto anche perché dai governi che si sono succeduti in trent'anni nessuno ha fatto pressioni su chi poteva aggiungere degli importanti tasselli per comprendere le cause reali dell'incidente, vale a dire i vertici delle forze armate e della politica statunitense. Il presidente del Consiglio dell'epoca, Giulio Andreotti, sentito dai magistrati nel 2009 per rispondere delle relazioni con gli Stati Uniti, del ruolo della base di Camp Darby e dei movimenti di armi nel porto livornese, affermerà di non ricordare e di non avere elementi «per poter interloquire».

Meno di un anno dopo, lo scandalo di Tangentopoli farà finire in secondo piano la tragedia del Moby Prince. Le elezioni puniranno i partiti della maggioranza e dopo una lunga gestazione il governo sarà affidato a Giuliano Amato, che sarà costretto a una finanziaria da centomila miliardi delle vecchie lire, con un prelievo forzoso del sei per mille dai conti correnti degli italiani, per raddrizzare un bilancio statale sull'orlo del collasso. Di lì a qualche mese, la nascita della Seconda Repubblica sarà accompagnata da un rivolgimento del sistema per via giudiziaria, da una stagione di stragi mafiose e omicidi eccellenti, dall'esplosione della Lega Nord e dalla discesa in campo di Silvio Berlusconi che riconfigurerà un panorama politico italiano terremotato dalla fine dei partiti democristiano e socialista. Sul piano internazionale, l'implosione dell' Unione Sovietica e il Trattato di Maastricht ridefiniranno la geografia europea, con importanti conseguenze anche sul nostro Paese. Nulla sarà più come prima, ma i misteri di cui è punteggiata la storia d'Italia rimarranno irrisolti. La tragedia del Moby Prince non farà eccezione, come il suo omologo nei cieli: l'abbattimento del Dc9 dell'Itavia al largo di Ustica, il 27 giugno 1980.

I familiari delle vittime non si sono mai arresi. Sono riusciti a dare un nome alle navi americane che quella notte affollavano il porto di Livorno rendendo difficoltosa ogni manovra. Si chiamavano Cape Flattery e Cape Bretone Gallant 2. Quest'ultima è la maggiore indiziata di essere Theresa. Una perizia commissionata dai congiunti delle persone a bordo ha stabilito che la voce del suo comandante, un greco, sarebbe la stessa registrata dal canale 16 della Capitaneria, quella che dice «I'm moving out». Una lettera del Dipartimento di Stato americano ha ammesso la presenza, al momento dell'incidente, di «cinque navi merci noleggiate dal comando trasporti militari, una delle quali dovette essere rapidamente allontanata perché minacciata dalle fiamme della Moby Prince».

Vent'anni di processi non sono approdati però a una verità giudiziaria soddisfacente. Un po' più lontano è arrivata la Commissione parlamentare d'inchiesta nominata, dopo anni di battaglie politiche, solo nel 2015. La relazione finale, consegnata nel 2018, ha concluso che, contrariamente alle ipotesi fatte fino a quel momento, l'incidente non è stato causato dalla foschia e neppure da un errore del comandante, l'Agip Abruzzo si trovava in una zona di divieto di ancoraggio e la Moby Prince ha subito, per cause non chiare, un'alterazione nella rotta di navigazione che potrebbe aver causato l'incidente. Di più non è riuscita a stabilire. Chi poteva sapere ha preferito avallare la versione che quella notte, nel porto di Livorno, c'era una nebbia che ancora oggi impedisce di fare chiarezza su quel che accadde.