Dallo stretto riserbo delle consultazioni di Mario Draghi con le parti politiche e sociali è subito emersa un’indiscrezione: l’assoluta priorità data alla scuola. Ciò dovrebbe essere causa di celebrazioni in chiunque tenga al futuro della nostra società: che un governo chiamato a investire risorse ingenti e a realizzare riforme importanti ponga in cima all’agenda l’educazione non dovrebbe rattristare nessuno, men che meno i lavoratori della scuola. Anche la scelta di Patrizio Bianchi come nuovo ministro dell’Istruzione è un segnale importante: a ottobre 2020, in tempi non sospetti, Bianchi ha illustrato con chiarezza la sua visione (Nello specchio della scuola, Il Mulino). Chiunque abbia letto il suo libro sa che i timori di un approccio aziendalista alla scuola da parte del nuovo governo sono infondati: non è l’economia che salverà la scuola, bensì la scuola che, con adeguati investimenti, diventerà motore di sviluppo per il Paese.

Nel medio-lungo termine, questo richiederà un impegno sulla valorizzazione professionale dei docenti, il riconoscimento di una maggiore varietà di funzioni nell’organigramma delle scuole, il rilancio dell’autonomia scolastica in relazione ai contesti territoriali, e naturalmente conseguenti investimenti, visto che l’Italia resta agli ultimi posti per risorse dedicate a scuola e ricerca, a cominciare dagli stipendi degli insegnanti. Nell’immediato, però, due temi emergenziali sono al centro del dibattito: l’urgenza di nuove assunzioni di docenti e l’ipotesi (per ora solo ventilata) di prolungare la didattica anche nella seconda metà di giugno 2021.

Sul primo punto, è impossibile manifestare disaccordo, né vi è ragione di dubitare che il nuovo esecutivo darà pronta attuazione alle intenzioni espresse. Qui la questione riguarda le modalità con cui effettuare nuove assunzioni: è presto per dire che esiti avrà il confronto con le parti sociali, ma si possono formulare due auspici, uno di prudenza socio-sanitaria, l’altro di efficacia educativa. Innanzitutto, dato il perdurare della pandemia, sarebbe logico evitare nuovi concorsi, con tutte le complicazioni e le occasioni di assembramento che creerebbero (proprio in questi giorni ripartiranno le prove del concorso straordinario già avviato, fra numerose perplessità); per non parlare dei tempi tecnici necessari all’espletamento delle procedure selettive, non compatibili con l’urgenza con cui occorre immettere forze nuove negli organici scolastici. Al contempo, oggi servono nuovi insegnanti che già sappiano insegnare: non personale da formare, bensì docenti testati sul campo, professionisti con esperienza didattica maturata direttamente in classe, non solo sui libri. Il bacino del precariato scolastico a cui attingere è, purtroppo, ampio e variegato: varrebbe la pena valutare se non fare di sventura virtù, cogliendo l’occasione per stabilizzare parte di questo personale. Magari offrendo ai dirigenti scolastici margini di discrezionalità sulle competenze necessarie nei loro istituti, potenziando l’autonomia scolastica, e prevedendo efficaci percorsi di affiancamento con docenti già in ruolo. 

Il secondo tema, il prolungamento dell’anno scolastico in corso, è quello che ha prodotto reazioni più forti nel mondo della scuola, incluse alzate di scudi. La foga di dichiararsi indisponibili a ipotesi vaghe, nel momento stesso in cui queste vengono formulate in camera caritatis e poi diffuse di seconda mano, dimostra il generale impazzimento del dibattito pubblico, votato alla presa di posizione sul sentito dire, non all’approfondimento critico e alla negoziazione di soluzioni efficaci. Che simili smanie prendano i singoli individui durante le loro avventure sui social media, passi; che lo stesso avvenga da parte di organizzazioni sindacali, invece, è allarmante. Eppure ecco un estratto del comunicato ufficiale dello Snals, datato 9 febbraio 2021: «La scuola è in trincea da un anno: no all’allungamento dell’anno scolastico! L’intervento del prof. Draghi, sul mondo della scuola, lascia perplessi. Nell’affermare che l’anno scolastico debba proseguire, prevedendo attività pomeridiane o da svolgersi nel periodo estivo, mostra di dare per scontato che nulla fino a oggi sia stato fatto, annullando con un colpo di spugna tutto il lavoro di mesi e comunicando alle famiglie e agli alunni la sensazione che quanto finora costruito insieme, non rappresenti nulla… anzi, sia stata una mera perdita di tempo».

Questo proclama di intenti, simile ad altri sentiti in questi giorni, svela un errore argomentativo evidente. Il prolungamento della didattica a giugno vuole aiutare la scuola a sanare i deficit di apprendimento creati dalle chiusure dello scorso anno e anche di quello attuale, per quanto riguarda la secondaria di secondo grado. Come ho cercato di illustrare recentemente, questi deficit non dipendono da carenze del sistema scolastico, ma al contrario si sono prodotti a dispetto degli sforzi messi in atto da docenti e dirigenti, sforzi che hanno impedito tracolli ancora peggiori. Tuttavia, fra lo scampato naufragio e il viaggio senza inconvenienti ci sta un mare di differenza, ed è in quelle acque agitate che oggi studenti e insegnanti si trovano, faticosamente, a navigare.

Non è il prolungamento della didattica che nega gli sforzi messi in atto dalla scuola; se mai, è il rifiuto aprioristico di tale prolungamento che nega l’esistenza di ritardi negli apprendimenti, in conseguenza dell’emergenza pandemica. Ignorare tali ritardi è irresponsabile, perché essi si ripercuotono sulla dispersione scolastica, esplicita e implicita, in particolare nelle fasce più deboli (su questo, valgano le considerazioni di Francesco Rocchi, Lasciare la scuola anzitempo: le possibili conseguenze del Covid sulla dispersione scolastica, «il Mulino», n. 4/2020). Ignorarli poi per difendere il buon nome degli insegnanti è superfluo: è evidente che il problema è stato creato da circostanze eccezionali e avverse prodotte dalla pandemia, non da scarso impegno delle scuole. Da ultimo, questa excusatio non petita insinua l’assoluta irrilevanza della didattica in presenza: se la chiusura subitanea e prolungata delle scuole nel 2020, con inevitabile impreparazione tecnica e infrastrutturale alla didattica a distanza a tempo pieno, davvero non avesse prodotto ritardi di apprendimento negli studenti, allora sarebbe difficile capire perché sia tanto importante tenere aperte le scuole.

Una volta superati i rifiuti pregiudiziali, si apre la possibilità di discutere ciò che davvero conta: il merito della proposta. Come effettuare il prolungamento? Con che investimenti accompagnarlo? Quale ruolo dare all’autonomia scolastica nel definirne le modalità di attuazione? Come coordinarsi con regioni e provveditorati? Quali strategie adottare per monitorare gli esiti? Uno dei ritardi più gravi da parte del ministero dell’Istruzione durante il lockdown delle scuole nel 2020 ha riguardato la raccolta dati: non è stata effettuata una ricognizione puntuale di come le varie scuole hanno gestito la didattica a distanza in quei mesi cruciali, il che ci lascia oggi in grave carenza di informazioni. Da questo punto di vista, la volontà di ripristinare già per il 2021 le prove Invalsi appare encomiabile, purché le si realizzi senza gravare le scuole di ulteriori fardelli. C’è infatti urgente bisogno di dati sullo sviluppo delle competenze durante il periodo dell’emergenza: dati che non possono essere ridotti alle valutazioni espresse in pagella, le quali giustamente tendono a incorporare le difficoltà causate dalla pandemia nell’esprimere un giudizio sugli studenti. Quello che occorre misurare, invece, è la qualità dei risultati didattici, non la buona volontà in tempi difficili. Per questo, le prove Invalsi sarebbero uno strumento prezioso.

Benché sia ancora presto per sapere se il ventilato prolungamento della didattica a giugno si realizzerà, primi segnali di disponibilità stanno arrivando dal mondo della scuola. Nella lettera inviata a Draghi il 13 febbraio 2021, l’Associazione nazionale presidi sostiene che «la perdita in termini di apprendimento da parte degli studenti come effetto della scuola dell’emergenza rappresenta una ulteriore falla che impone interventi immediati», sottoscrivendo le premesse, se non le conclusioni, della proposta suggerita dal nuovo governo. E anche la segretaria generale della Cisl, Anna Maria Furlan, ha manifestato disponibilità all’ipotesi in un’intervista, pur rivendicando l’importanza di discuterne le modalità, ricordando l’impegno profuso dalle scuole durante l’emergenza e sottolineando la necessità di importanti investimenti. Dunque, un certo possibilismo sulla proposta si sta diffondendo, al netto delle perplessità. Perplessità che sarebbero attenuate se si smettesse di vedere l’idea come un carico aggiuntivo di lavoro, e la si considerasse per quel che è: tempo aggiuntivo per realizzare con più calma quanto già in opera.

Molti docenti leggono nel prolungamento una sottovalutazione di quanto finora fatto, ma non ve ne è ragione: al contrario, un’implementazione tempestiva del provvedimento, entro i primi di marzo, consentirebbe alle scuole di ripianificare gli ultimi mesi di didattica, distribuendo su un arco temporale più ampio le attività in corso. Un tempo scuola prezioso, non da riempire ossessivamente con «più roba», ma da sfruttare per un graduale consolidamento delle competenze: un parziale risarcimento per la brutale interruzione della didattica in presenza, la riconquista di un po’ di quel tempo che è stato rubato dalla pandemia, non «perso» dalla scuola.

A conti fatti, in questa fase aurorale del nuovo esecutivo, chi si occupa di scuola dovrebbe prestare meno attenzione al dito delle indiscrezioni, per volgere lo sguardo alla luna delle priorità: l’annosa questione del prolungamento della didattica è dito, il fatto che un governo con grandi disponibilità finanziarie bussi come prima cosa alla porta della scuola è, decisamente, luna. Nelle parole tratte dal libro già citato del neo-ministro, «è dunque questo il momento di investire in educazione: non solo per superare l’emergenza Covid-19, ma per guardare oltre, per ritrovare quel cammino di sviluppo umano che, dopo essersi perduto nei lunghi anni in cui hanno prevalso individualismo e populismo, deve fondarsi sui valori definiti nella nostra Costituzione» (p. 175).