Non c’è bisogno di richiamare Rino Formica e la sua abusata definizione di «politica». Che si tratti anche, ma non solo, di un’attività cruda e cinica lo sapevamo da tempo e non serviva Renzi a ricordarcelo.

Ormai l’operazione Conte è archiviata ed è giusto riflettere su che cosa succederà dopo, con l’ingresso in scena di un «fuoriclasse» come Mario Draghi. Non intendo nemmeno discutere del modo – spregiudicato e spericolato – con cui è stata conclusa l’esperienza del governo precedente. Che ci piaccia o no, ci troviamo in un contesto del tutto nuovo, dai contorni ancora indefiniti ma in grado di innescare mutamenti dirompenti nel sistema politico italiano. Di fronte a questo spartiacque che già si vede all’orizzonte, i partiti hanno soltanto due alternative: o provano a stare al gioco, cercando di salvare almeno la faccia, oppure aspettano sulla riva del fiume che una nuova – l’ennesima – grande slavina arrivi a travolgerli. Chi pensa di poter lucrare qualche punto di consenso, semplicemente si illude. Perché il futuro, oggi più imprevedibile che mai, non è e non sarà nelle loro mani.

Invece, per chi decide di mettersi in gioco, ovviamente a sostegno di un governo «di alto profilo», la nuova fase che si sta aprendo potrebbe diventare un’opportunità. Innanzitutto, per dimostrare in primis a se stessa che «questa classe politica» non è fallita e che, (molto) in fondo, qualcosa di sano è rimasto. Ma per farlo serve una presa di coscienza della gravità del momento, il più drammatico dell’intera nostra storia repubblicana. Finora lo hanno ripetuto pappagallescamente, tra un talk show e l’altro, ma senza convinzione. Non è bastato neppure il messaggio di fine anno del presidente Mattarella, col suo richiamo alla necessità di svestire i panni dei «demolitori» e di indossare quelli dei «costruttori». E infatti sono subito spuntati costruttori da quattro soldi, pronti a concedersi al miglior offerente. È stato necessario un secondo messaggio di Mattarella, questa volta senza possibilità di appello, per richiamare tutti alla realtà: o proviamo a gestire questa fase – e quella che immediatamente seguirà – con lo stesso spirito con cui i nostri Padri Costituenti hanno risollevato l’Italia dalla tragedia della Seconda guerra mondiale o rischiamo di trovarci un Paese in macerie – politiche, economiche, sociali e anche culturali.

Questo richiamo alla gravità del momento è rivolto soprattutto alla classe parlamentare, ma dovrebbe valere anche per chi, in questa fase così delicata, si occupa di informazione. Sarò démodé, ma trovo sorprendente che nel pieno di una crisi di governo nel bel mezzo di una pandemia i principali talk show continuino a propinarci il «momento comico», con l’imitazione di turno o la gag riciclata da qualche vecchio spettacolo. Qui non si tratta di difendere l’arte mentre il Titanic affonda. Si tratta di far seriamente il proprio dovere, che è anche quello di sintonizzarsi con il proprio tempo e con le sfide che esso comporta. E se lo spettacolo deve proprio andare avanti, che sia almeno di buon gusto.

La presa di coscienza da parte dei nostri rappresentanti e politici però non basta. È necessaria, anzi propedeutica, ma il difficile viene dopo. Se davvero vogliono essere all’altezza della sfida e del momento, ci sono due agende sulle quali devono dare il loro contributo, in una indirettamente e nella seconda in primissima persona. La prima è l’«agenda Draghi» e riguarda poche e grandi direttive di politica economica che sono necessarie per la ripresa e il rilancio dell’economia (sono – lo confermo – démodé, e «resilienza» proprio non riesco a usarlo). Il grosso, cioè la filosofia di fondo, ce l’ha già fornito l’Unione europea con il piano Next Generation EU. Il finanziamento ha saputo ottenerlo degnamente il premier Conte e ora i programmi di spesa sono in mano alla squadra di Mario Draghi, la miglior garanzia per chi spera che il denaro preso oggi a prestito non vada a pesare domani sulle spalle delle future generazioni. Ma l’agenda economica non si ferma qui. C’è molto altro che serve per sbloccare un Paese fermo da oltre vent’anni e che i partiti hanno il dovere di portare al tavolo delle trattative sul nuovo governo: una riduzione vera del costo del lavoro, una riforma della pubblica amministrazione (giustizia inclusa), una semplificazione al codice degli appalti, l’introduzione di un salario minimo e una tutela per le categorie più danneggiate dalla pandemia (a partire dalle donne, pesantemente punite da un mercato del lavoro iniquo e bloccato). I partiti, almeno quelli che non si tireranno indietro di fronte a questa sfida, si intestino una di queste battaglie e si impegnino per realizzarla. Servirà a loro, e servirà anche all’Italia.

C’è, però, un impegno ancor più importante che spetta alla classe politica in questa fase. Mentre il governo Draghi si occuperà di gestire e risolvere l’emergenza economica, i partiti non devono stare con le mani in mano. Di fianco all’emergenza economica, ce n’è un’altra, altrettanto urgente, che non può più essere trascurata. Ed è quella che riguarda lo stato delle nostre istituzioni democratiche, a cominciare dall’assemblea parlamentare. In questo caso serve un’agenda chiara di intervento, senza riforme «epocali» con prospettive palingenetiche. Anche perché, lo abbiamo già visto, non ne saremmo capaci. Basterebbe un programma di interventi istituzionali fatto di pochi punti. Cinque per l’esattezza: 1) l’abbandono di una legge elettorale pessima e il semplice recupero di un sistema «accettabile» come il Mattarellum; 2) l’introduzione dell’istituto della sfiducia costruttiva per mettere il governo al riparo da ricatti estemporanei; 3) la riforma del Senato per dare rappresentanza ai territori e regolare il conflittuale rapporto Stato-regioni; 4) un ritocco serio e non aggirabile dei regolamenti parlamentari per evitare altri episodi di degenerazione trasformistica; 5) infine, l’introduzione di una «legge sui partiti politici», per garantirne stabilità, trasparenza e democraticità (a cui si potrebbe agganciare una forma di finanziamento pubblico «incentivante»: soldi dei contribuenti in cambio di radicamento sociale, presenza territoriale, formazione ecc.).

Non è detto che la classe politica riesca a cogliere l’opportunità che si è aperta con questa crisi. Probabilmente, ha ragione chi ha già scommesso sul suo fallimento. Ma non provarci sarebbe una sconfitta in partenza. Male che vada questi partiti avranno soltanto ritardato di qualche mese la loro scomparsa. Se invece dovesse andare bene, avrebbero contribuito a «costruire» davvero la mai nata Seconda Repubblica. E gli italiani alla fine potrebbero pure ricordarselo.