Le cronache e le immagini giunte da Washington lo scorso 6 gennaio hanno purtroppo, per lo storico dell’età contemporanea, l’odore di qualcosa di conosciuto.

Il pensiero va immediatamente all’Italia del 28 ottobre 1922, quando un movimento politico che aveva 35 deputati in un Parlamento di 535 promosse una marcia delle sue squadre armate sulla capitale come arma di pressione e di ricatto sul governo e sul re. Va poi alla Francia del 6 febbraio 1934, quando migliaia di ex-combattenti della Prima guerra mondiale, radunati dall’estrema destra filo-fascista, marciarono sul Parlamento e cercarono di invaderlo per abbattervi il governo che accusavano di corruzione e di incapacità. Va infine alla Spagna del 23 febbraio 1981, quando un gruppo di militari nostalgici del franchismo, mitra alla mano, fece irruzione nel Parlamento.

L’assalto al Parlamento sembra dunque appartenere al Dna dei movimenti fascisti. Significa questo che stiamo assistendo, e nella più grande democrazia del mondo, a una resurrezione del fenomeno?

È dalla fine del 2015 che, di fronte alla crescita globale del populismo di destra e all’ascesa di Trump, l’accademia e la politica progressista americane insistono su questa idea. Secondo il politologo Robert Kagan, che scriveva a inizio 2016 sul «Washington Post», il fascismo stava arrivando in America «non con saluti e stivali ma con un imbonitore televisivo, un miliardario fasullo, un egotista da manuale che sfrutta il risentimento e l’insicurezza della gente». Sono seguiti molti autorevoli libri che hanno identificato una svolta americana verso l’autoritarismo, avvertito che un’ondata globale in questo senso proveniente dalla Russia e dall’Europa stava approdando negli Stati Uniti. Nello stesso 2018 fu la volta dell’ex segretario di Stato Madeleine Albright a sottolineare in un nuovo volume che, come negli anni Venti e Trenta, si stava assistendo al ritorno del pericolo di un nuovo crollo della democrazia. Anche il filosofo di Yale Jason Stanley ha individuato un ritorno di fascismo nella retorica nazionalistica del «noi» e «loro» e nella mentalità complottista.

Naturalmente, le vicende di questo inizio 2021 non hanno fatto che dare maggior forza a queste sensazioni. Sul «New York Times» Snyder ha riproposto la sua idea che la «post-verità», costituendo il passaggio al «regime del mito», sia di per se stessa «prefascismo». Dunque, Trump è il primo presidente «pre-fascista» d’America. Su «Newsweek» un altro storico, Robert Paxton, ha scritto che, se finora avrebbe esitato a definire Trump fascista, ora le cose gli sembravano diverse: l’aperto incoraggiamento del presidente alla violenza civile per rovesciare i risultati elettorali e l’uso spregiudicato dei media che richiama quello operato dal nazismo identificavano pienamente, a suo avviso, Trump con il fascismo.

Tutto ciò è coinvolgente, e comprensibile: è naturale interrogarsi con ansia e preoccupazione sui pericoli per la democrazia contemporanea. Ma è davvero giustificato?

Qualche perplessità la nutro. Non posso fare a meno di ricordare quanti guasti, per tutto il Novecento, abbia prodotto il progressivo allargarsi della categoria di fascismo e la sua applicazione a tanti fenomeni diversi. Cominciarono già negli anni Venti i comunisti, parlando di «fascismo oggettivo», «semi-fascismo», «social-fascismo» ed estendendo l’accusa praticamente a tutti coloro che fossero alla loro destra. Dopo la sconfitta del fascismo nella Seconda guerra mondiale, la polemica della Guerra fredda vide rimbalzare l’accusa da un fronte all’altro. Furono coinvolti i regimi più diversi. Da sinistra si puntò il dito su quelli di destra: furono definite fasciste le dittature militari in America Latina, il gaullismo francese, i regimi autoritari africani e asiatici, presidenti americani come Nixon, Reagan o Bush. Come non ricordare la campagna degli anni Settanta della nuova sinistra contro il «fanfascismo», riferito al segretario Dc Amintore Fanfani? Da destra, vennero invece accusati di fascismo i regimi comunisti, come quello nord-coreano o quello cinese dopo la repressione di Piazza Tienanmen. Di «fascismo rosso» si è parlato nel caso del terrorismo in Germania o in Italia. Il direttore dell’americana e conservatrice «National Review», Jonah Goldberg, ha proposto di considerare fascista addirittura il New Deal rooseveltiano. Dopo che nel 2006, in una conferenza stampa, il presidente George Bush aveva usato la formula «islamo-fascismo», un giornalista autorevolissimo come Christopher Hitchens l’ha difesa. Più di recente, il politologo egiziano-tedesco Abdel Ahmed-Samad ha introdotto la categoria di «fascismo islamico», in rapporto non solo ai regimi fondamentalisti ma anche a quelli semplicemente autoritari e bellicosi. Dal canto loro i movimenti islamisti hanno costantemente definito Israele come «fascista».

Non è mancato, del resto, chi, ormai molti anni fa, ha proposto di considerare il fascismo come una categoria fuori dal tempo: «Ogni tempo ha il suo fascismo», scriveva sul «Corriere della Sera» Primo Levi l’8 maggio 1974. E nel 1995, proprio parlando a un pubblico statunitense, un semiologo come Umberto Eco ha suggerito l’idea di un «fascismo eterno», individuando addirittura i 14 punti di un «Ur-fascism».

Ha senso un utilizzo così vasto e universale della categoria? L’analisi storica propone alcune certezze molto chiare: il fascismo fu un fenomeno totalitario che ha annullato ogni distinzione tra sfera pubblica e sfera privata, ha usato sistematicamente la violenza come strumento di lotta politica, ha promosso una religione politica dello Stato o della razza, ha proposto una rivoluzione antropologica rivolta alla formazione di uomini e donne «nuovi», ha chiamato a un militarismo ferreo e bellicoso. Allora, negli Stati Uniti di oggi, abbiamo di fronte a noi questi caratteri? L’evidenza appare contraddittoria.

Certo, i fascisti sono ancora tra di noi. E ce ne sono non pochi (i servizi televisivi ce li hanno mostrati) nel popolo trumpiano: personaggi che si riferiscono esplicitamente al fascismo, ne condividono i valori, usano i suoi simboli, i suoi slogan, i suoi gesti. Più in generale, è innegabile che le milizie armate che abbiamo visto in azione (e non solo il 6 gennaio), con le loro pratiche intimidatorie e il ricorso alla violenza, rappresentino un elemento di pressione e di ricatto sulle istituzioni democratiche molto simile a quello esercitato dallo squadrismo fascista. Molti degli altri accostamenti proposti tra trumpismo e fascismo, però, non mi convincono. Infatti, sia la logica del «noi» e dei loro», che la mentalità complottistica, che la «post-verità», che la manipolazione dei media non possono essere considerate strumenti esclusivi delle esperienze fasciste ma sono applicabili a molti altri regimi, da quelli comunisti alle dittature autoritarie o militari.

Soprattutto, c’è un fatto, a mio avviso, emblematico. Tutta la questione negli Stati Uniti nasce oggi dall’accusa ai democratici di avere rubato le elezioni, e dunque il consenso popolare. L’accusa è sbagliata, pericolosa, strumentale, artificiosa ‒ tutto quello che volete ‒ ma è anche rivelatrice, perché nessun fascista l’avrebbe mai presa in considerazione. Al fondo, essa lamenta una mancanza di rispetto della volontà popolare, e presuppone che Trump si consideri rappresentante di un popolo tradito. Mai un fascista avrebbe lamentato un’elezione truccata: rifiutava infatti il principio stesso della maggioranza basata sul numero, rifiutava le masse e rivendicava il ruolo delle élites interpreti della volontà nazionale.

In definitiva, dunque, tra una risposta positiva e una negativa al quesito iniziale sul ritorno del fascismo, io continuo a propendere per la negativa. Attenzione, però. Con questo non intendo in alcun modo minimizzare quanto è avvenuto il 6 gennaio. Anche se ritengo che sia difficile definirlo propriamente «fascista», credo che esso rappresenti una minaccia inusitata e gravissima. Forse, l’unica ragione valida a favore del richiamo al pericolo fascista sta proprio nell’invito a non sottovalutare. Allo stesso tempo, credo che impostare le cose come fanno molti liberal americani sia fuorviante.

Dietro la loro posizione non è difficile individuare un corto circuito tra inclinazioni politiche e analisi scientifica, frutto della radicalizzazione progressiva della politica americana e della delegittimazione assoluta di uno schieramento da parte dell’altro. Non è certo un caso se un ex consigliere di Reagan alla Casa Bianca, Dinesh D’Souza, nel suo The Big Lie, ha di recente rovesciato le accuse di fascismo rivolte a Trump rivolgendole a tutta la cultura progressista americana, malata di statalismo autoritario e di incitamento all’«odio».

L’allargamento del concetto di fascismo a ogni regime nazionalista, autoritario, militarista, repressivo, rischia così di portarci non solo in una direzione conoscitivamente sbagliata ma anche pericolosa sul piano civile. Rischiamo, innanzitutto, di «de-fascistizzare» il fascismo stesso, e così di banalizzarlo, di normalizzarlo, di minimizzarlo. Allo stesso tempo, rischiamo di attribuirgli una forza, un potere di resurrezione, un carattere di «araba fenice» che esso non ha (è stato sconfitto, per fortuna: dobbiamo ricordarcelo più spesso). In un’atmosfera che è inevitabilmente meno sensibile di una volta ai valori anti-fascisti su cui si è costruito il Dopoguerra, rischiamo poi di far sembrare le nostre (pur giustificatissime) denunce di metodi davvero democraticamente inaccettabili come non oggettive ma ideologicamente orientate. Soprattutto, rischiamo di distogliere l’attenzione dai caratteri nuovi delle minacce che corre la nostra democrazia. Le nuove sfide richiedono risposte nuove, non vecchie. Il fatto che le nuove forme del populismo non dichiarino, come faceva esplicitamente il fascismo, che il tempo della democrazia sia finito non le rende meno pericolose. Semmai, lo sono di più, perché contro il fascismo l’esperienza passata ci aiuta a saper come mobilitare gli anticorpi, ma contro questi nuovi nemici dobbiamo inventare dal nulla i meccanismi di risposta.

Concludo. Il fatto che un fenomeno politico non ci piaccia non lo rende fascista; né lo rende fascista il fatto che esso costituisca una minaccia, anche gravissima, per la democrazia. Con un grande storico del fascismo, George Mosse, anche io credo che, nella moderna società di massa ogni nuova era di difficoltà economiche o di accelerazione del progresso porti crisi drammatiche del parlamentarismo e della democrazia. Purtroppo, esse diventeranno sempre più gravi via via che la crisi economica e sociale peggiora, ma assumeranno forme autoritarie nuove, non quelle del fascismo storico.

Allora, l’esperienza storica del fascismo serve: ma per farci ricordare che le democrazie non sono invincibili e che il grande dono che abbiamo la fortuna di avere può essere presto perduto e va difeso a ogni costo.