Che le montagne siano sentinelle dei cambiamenti climatici e ambientali è un’affermazione forse ormai abusata, tuttavia rappresenta con efficacia la verità. Lassù, lontano da eccessive interferenze antropiche, si misurano dati importanti e si osservano fenomeni che nel tempo faranno sentire i loro effetti anche nelle pianure e lungo le coste, vicine e lontane. Pensiamo ad esempio al regresso dei ghiacciai, che cambia il regime stagionale dei fiumi e fa salire i livelli del mare. Ne parleremo meglio più avanti. Volendo comprendere processi complessi come quelli che governano le interazioni tra atmosfera, ghiacciai, suoli, foreste, oceani... insomma, l’insieme del sistema-Terra, gli scienziati hanno bisogno di dati, senza i quali non si va da nessuna parte. Numeri per identificare tendenze già in atto (come l’aumento delle temperature o la riduzione dell’innevamento) e per validare e alimentare i modelli di simulazione del clima futuro, fondamentali per non farci cogliere impreparati e fare adesso scelte strategiche.

Non a caso, spesso le montagne sono state scelte per collocare osservatori meteorologici e ambientali importanti. L’Organizzazione meteorologica mondiale di recente ha voluto riconoscere, premiare e promuovere la salvaguardia delle serie di osservazioni più lunghe – almeno un secolo – e continuative con il programma internazionale Centennial observing stations. Tra Alpi e Appennini, dal 2018 e al 2020 hanno ricevuto la prestigiosa qualifica di «stazione centenaria» gli osservatori del Colle del Gran San Bernardo (2.472 m, il più antico dell’arco alpino, fondato nel 1817), del Saentis (2.502 m, Svizzera nord-orientale), del Sonnblick (3.105 m, Alti Tauri, Austria) e quello di Montevergine (1.280 m, Irpinia), oltre a una serie di altri osservatori a bassa quota tra cui Moncalieri, Piacenza, Modena, Venezia, Pesaro, Urbino, Firenze, Roma, Palermo ecc.

Ma non possiamo dimenticare altri punti di misura che, pur senza aver ancora raggiunto il secolo di attività, assolvono un ruolo scientifico di primo piano, come quelli del Plateau Rosa (3.488 m, Cervinia) e del Monte Cimone (2.165 m, Appennino tosco-emiliano), per non parlare del vasto patrimonio di osservazioni raccolte da 50-90 anni presso gli impianti idroelettrici montani (dighe e centrali), che permettono di studiare soprattutto l’innevamento, nonché delle recenti stazioni automatiche dei vari servizi meteorologici regionali che trasmettono dati anche da zone remote e non presidiate oltre i 2.500-3.000 m, mai monitorate in precedenza.

Cosa ci dicono, dunque, le stazioni di misura? Anzitutto, che in montagna fa più caldo, rafforzando un’evidenza globale ormai inequivocabile e confermata da una moltitudine di indicatori naturali, dalla fenologia delle piante (anticipo dell’emissione delle foglie e della fioritura, ritardo della colorazione autunnale ecc.) al comportamento stagionale degli animali selvatici, ai ghiacciai che si consumano. Infatti, se nell’insieme del pianeta la temperatura media dal 1880 è aumentata di 1,1°C per effetto delle emissioni-serra di origine antropica (Ipcc, con aggiornamenti Noaa, Nasa-Giss e MetOffice), su Alpi e Appennini l’incremento termico nello stesso arco di tempo è stato doppio, dell’ordine di 2°C (Cnr-Isac), e gli ambienti rispondono con una molteplicità di fenomeni. In verità, circa metà di questa variazione si è concentrata negli ultimi tre decenni di accelerato riscaldamento.

 

[L'articolo completo è pubblicato sul "Mulino" n. 6/20, pp. 992-1002. Il fascicolo è acquistabile qui]