A partire dagli anni Novanta del secolo scorso, il turismo di massa invernale in montagna, legato agli impianti di risalita delle stazioni sciistiche, è entrato in crisi a causa di una serie di fattori concomitanti: il clima è cambiato, la neve scarseggia e bisogna crearla artificialmente per poter tenere aperte le piste, con costi economici e ambientali crescenti, difficilmente sostenibili per i turisti e per i territori montani. Così lo sci da discesa, ormai uno sport di massa, ha cominciato a perdere il suo carattere popolare.

Poi è arrivato il Covid-19 e la fragilità della globalizzazione turistica dell’oro bianco è emersa in tutta la sua evidenza. L’insostenibilità ambientale ed economica del turismo invernale di massa, secondo alcuni osservatori peraltro già evidente, diventava anche sociale e sanitaria. L’emergenza pandemica di marzo 2020 ha colto la stagione sciistica ancora in piena attività, vista l’abbondanza di neve sulle piste, e le immagini degli sciatori che si accalcavano alla partenza della funivia di Ischgl, rinomata stazione sciistica austriaca di confine, hanno immediatamente fatto il giro del mondo. I giornali titolavano Dal Tirolo contagiata tutta Europa, e la bufera sui ritardi nella gestione dell’emergenza che ha fatto dello splendido luogo sulle Alpi uno dei focolai di Covid-19 più pericolosi d’Europa ha travolto la procura di Innsbruck. Nel frattempo le città annunciavano il triste lockdown, le frontiere venivano chiuse e gli alberghi a quattro stelle in quota cominciavano a perdere le ricche prenotazioni straniere su cui poggia il rito della settimana bianca. In pochi giorni le stazioni sciistiche della neve firmata si sono svuotate e milioni di euro sono andati in fumo. L’agognato mercato internazionale, unico argine ormai sopravvissuto a sostenere l’industria e l’indotto dello sci da discesa, si è sciolto come neve al sole.

Enrico Camanni, scrittore, alpinista e intellettuale della montagna, in un articolo apparso sul numero 104 (aprile-maggio 2020) della rivista «Dislivelli.eu» (La montagna è l’antidoto? Dipende), sostiene che: «L’illusione di “vendere” le Alpi prima di tutto a chi viene da molto lontano, solo perché ha il portafoglio molto gonfio, cozza con il bisogno, anzi l’urgenza, di una frequentazione intima e consapevole, una cura non soggetta a gusti e mode indotte dal mercato, profondamente inserita nel milieu territoriale, culturale e sentimentale. Il coronavirus ci insegna che se il turismo di massa è fragile, volubile e vulnerabile ai contagi massicci, vivere i luoghi con sguardo partecipe e delicato può essere l’antidoto a molti virus». Non si può certo dire che gli imprenditori della neve non conoscessero i rischi a cui andavano incontro inseguendo e promuovendo modelli monoculturali di massa sui territori montani. Erano stati ampiamente avvertiti da studiosi e analisti economici.

Perché, come sostiene Marco Aime, antropologo e profondo conoscitore delle dinamiche alpine (M. Dematteis, Intervista a Marco Aime«Meglio l’estate in montagna», l’ExtraTerrestre, «il manifesto», 28.5.2020), se escludiamo alcune località come Venezia, che può permettersi di vivere quasi esclusivamente di turismo per via della sua rendita di posizione unica al mondo, negli altri casi il turismo dovrebbe essere pensato come un’attività complementare e stagionale. E questo perché è legato a troppi fattori variabili: il clima che può influire negativamente sulla caduta della neve; le mode, per cui una certa località in un determinato periodo risulta molto frequentata, ma quando esce dall’immaginario turistico improvvisamente diventa secondaria, a favore di qualche altra località che diventa in voga. Il turismo è un’attività aleatoria. Soprattutto in montagna dovrebbe sempre essere affiancato ad altre attività più stabili e sicure. L’emergenza Covid-19 ha messo in luce la fragilità del sistema globale, e l’indotto turistico è stato il primo a essere colpito.

 

[L'articolo completo è pubblicato sul "Mulino" n. 6/20, pp. 984-991. Il fascicolo è acquistabile qui]