Il Consiglio europeo, il 21 luglio 2020, ha deciso di costituire un fondo per l’erogazione di sussidi ai Paesi messi in difficoltà economiche dalla pandemia; di questo fondo dieci Paesi saranno contributori netti e diciassette beneficiari netti. In particolare, l’Italia contribuirà con circa 41 miliardi e ne riceverà 87,4. Per inciso, la Germania verserà un contributo netto di 79,4 miliardi. 

È una prima forma di solidarietà europea fuori dal bilancio Ue. Inoltre, come è noto, lo stesso Consiglio ha deciso di assegnare all’Italia 121,4 miliardi sotto forma di prestiti a tassi decisamente inferiori a quelli che il nostro Paese dovrebbe pagare per raccogliere tali fondi sui mercati finanziari. Questa differenza continuerà a sussistere anche se la disponibilità all’emissione di titoli europei garantiti da tutti i Paesi europei assieme ha già fatto scendere i tassi di interesse sui titoli di Stato italiani.

In questo caso la solidarietà si esprime nella condivisione del rischio relativo al rimborso delle emissioni europee che saranno necessarie per la raccolta di tali fondi. Quest’ultima può apparire una solidarietà di minor peso, ma si può apprezzare la svolta intervenuta se si pensa che solamente un anno fa la posizione tedesca richiedeva prima la riduzione del rischio (risanamento del bilancio pubblico) per essere disponibile poi alla sua condivisione.

I prestiti che i Paesi riceveranno dalla Commissione europea saranno da rimborsare in trent’anni, dal 2028 al 2058; il che sembra sufficiente per denominare questi fondi Prossima generazione europea (Next generation EU, Ngeu) e far capire che il loro impiego dovrà mettere la prossima generazione europea in grado di rimborsarli; in altre parole, non dovrà dare solo una spinta congiunturale all’economia, ma aumentare il suo tasso di crescita potenziale. Il problema è che ci sono molti ostacoli di fondo che agiscono contro quest’ultimo obiettivo, ostacoli che vengono da lontano e vanno lontano e non sono sempre sotto il nostro controllo. È bene, quindi, non attendersi miracoli nei prossimi anni, ma un contenuto miglioramento della crescita media, che, lasciati a noi stessi, non saremmo in grado di mettere in atto, anzi rischieremmo di rimanere affogati nella profonda recessione da pandemia.

Questi ostacoli costituiscono una sorta di attrattori di fondo che non sarà facile contrastare. È come se ci trovassimo di fronte a movimenti tettonici contro i quali possiamo fare quasi nulla nel breve-medio periodo.

Di tanto in tanto la pressione di questi «movimenti», nel passato, si è liberata in «terremoti» (crisi): negli anni 1971-73 dopo l’abbandono degli accordi di Bretton Woods relativi al gold dollar exchange standard; dieci anni dopo, nel 1980-82, con la svolta nelle politiche monetarie; dopo altri dieci anni, nel 1990-92, con la crisi finanziaria in Giappone e Svezia e le ricadute nel Regno Unito e in Italia; infine, con l’ultima crisi finanziaria del 2007-09 e la crisi del debito pubblico in Europa del 2011-13.

[L'articolo completo è pubblicato sul "Mulino" n. 6/20, pp. 945-955. Il fascicolo è acquistabile qui