Il 16 dicembre 2016 Paolo Prodi ci ha lasciati. Nonostante la malattia che lo ha tormentato a lungo e di cui quasi non si lamentava, ha lavorato fino all’ultimo. Ha pensato e ragionato di questo mondo complesso e in sofferta trasformazione, rimarcando nei fatti quanto il lavoro di un intellettuale debba essere, innanzitutto, pensiero sul mondo che si traduce in riflessioni e parole scritte. Lo ha fatto sulla base della sua lunga e solida competenza di studioso del mondo moderno, dell’Europa, dei rapporti tra Stati e Chiese; infine, della perdita di punti di riferimento.

Spesso ci metteva a parte dei suoi pensieri, e questo è il lusso di cui si può vantare chi lavora al Mulino. Lo faceva con discrezione, un pezzo alla volta; ma anche così si capiva che il suo interrogarsi e cercare risposte non si sarebbe placato.

Paolo è stato uno dei protagonisti del lavoro culturale del Mulino nelle sue diverse istituzioni – dall’Associazione, alla Biblioteca, all’editrice – a partire in particolare dal rapporto editoriale stretto alla metà degli anni Settanta fra il Mulino e l’Istituto storico italo-germanico di Trento, che egli aveva allora contribuito a fondare.

La sua presenza ha marcato fortemente le scelte editoriali della nostra casa editrice. Soprattutto, ha dato al Mulino la quasi totalità dei suoi studi. Da Il sovrano pontefice, fondamentale ricerca sullo Stato pontificio, alla straordinaria trilogia Il sacramento del potere, sul giuramento politico, Una storia della giustizia Settimo non rubare, che disegna la sua grandiosa visione dello sviluppo della storia europea dal Medioevo a oggi: una visione ripresa e sintetizzata con Il tramonto della rivoluzione e con Occidente senza utopie, scritto con Massimo Cacciari e uscito a settembre 2016.

Dal 2012 aveva iniziato a raccogliere la sua produzione dispersa in una serie di volumi tematici che doveva concludersi nel 2017 con un ottavo volume dedicato alle proprie esperienze politiche.

Durante l'estate del 2016, in un incontro nella sua casa sulle colline reggiane, si è lasciato andare a raccontare qualcosa di più di ciò che al telefono accennava soltanto. Con grande fatica stava lavorando a un intervento che gli era stato chiesto per un Convegno organizzato nella sua Trento dall’Istituto storico italo-germanico, in occasione dei 500 anni della Riforma luterana. Quel testo, in una prima versione e successivamente in quella definitiva, lo ha condiviso con noi. E a noi è subito parso importante come tutte le cose di Paolo. Allora non sapevamo che sarebbe stato il suo ultimo lavoro. Quando fu stampato sul primo numero del 2017, lo dedicammo a tutti nostri lettori e a tutti coloro che lo hanno conosciuto e stimato.

È stata una personalità poliedrica quella di Paolo Prodi, per quanto la rilevanza della sua produzione storiografica costituisca la cifra fondamentale per interpretare il suo percorso. Certamente era stata anch’essa una scelta militante, nel senso che il termine assumeva in anni in cui non era stato banalizzato come gli accadrà di esserlo in seguito. Fu seguendo l’impulso di Giuseppe Dossetti che Prodi si specializzò in Storia moderna, ma attraverso gli studi della Facoltà di Scienze politiche dell’Università Cattolica: un percorso relativamente anomalo che avrà un suo peso. Il suo interesse verso la grande età della Riforma, e in specie di quella «riforma cattolica» che avrebbe trovato il suo sbocco nel Concilio di Trento, nasce e si consolida in quella «officina bolognese» che, dopo il ritiro di Dossetti dalla vita politica, si pone il grande tema dei passaggi di civiltà, quelli dove sfera religiosa e sfera politico-sociale si ibridano e si fecondano reciprocamente.

È questa la peculiarità di Prodi rispetto ad altri studiosi di quel cenacolo: non un discorso limitato al problema della «Ecclesia semper reformanda», ma un’appassionata indagine alla ricerca nella storia della modernità delle radici del travaglio che l’Italia e l’Europa vivono a partire dagli anni Settanta del secolo scorso. Non è solo l’uomo che lavora con altri nel retrobottega del Concilio, ma è quello che accetta di scendere in campo. Di qui la sua piena adesione al gruppo del Mulino, prima collaborando con l’editrice, poi più tardi entrando anche formalmente nell’Associazione, e il suo coinvolgimento nell’ufficio studi del ministero della Pubblica istruzione.

Il segno notevole che lascia nella ricerca storiografica, soprattutto con le opere della sua maturità, dallo studio sul «sovrano pontefice» del 1982 a quelli sul giuramento politico (1992), sull’evoluzione del sistema della giustizia fra etica e diritto (2000) e sul sistema economico moderno (2009), a volte fanno dimenticare le sue battaglie per la riforma del sistema dell’istruzione e della ricerca.

Non è solo l’impegno più noto nella sostanziale rifondazione del polo universitario a Trento, quando, rispondendo alla chiamata di Bruno Kessler, lavora per farlo passare dalla «monocoltura di sociologia» a un autentico ateneo pluridisciplinare, con un forte investimento sul versante delle scienze esatte e della tecnologia. Neppure solo la fondazione dell’Istituto storico italo-germanico, con l’importante intuizione che la rinascita di un sistema universitario ha bisogno di motori aggiuntivi esterni e che nel caso specifico sarà la riscoperta dell’interscambio fra cultura latina e cultura germanica a fornire propellente all’Europa del futuro. Oggi si è dimenticato il suo impegno a sperimentare nell’ambito della Provincia autonoma di Trento, affiancando Giovanni Gozzer, un sistema scolastico, specie sul versante della formazione professionale, capace di dare alle giovani generazioni gli strumenti per confrontarsi con un mondo in profonda trasformazione.

Del resto per Prodi la cultura era una dimensione poliedrica e doveva servire a un impegno civile cui non si doveva mai abdicare. La sua presenza costante nell’ambito del Mulino ne sarà la maggiore testimonianza. Certo, magari per il grande pubblico ci sono solo i momenti più appariscenti, la scelta di schierarsi per il mantenimento della legge sul divorzio nel referendum del 1974, poi la sua decisione di tornare nella sfera della politica militante con gli «esterni» che coadiuveranno la segreteria Dc di De Mita, infine la sua avventura complicata nella diaspora del cattolicesimo politico che ebbe uno dei suoi momenti nella Rete di Orlando e Pintacuda. Accanto a questi e dopo questi c’è però il lungo impegno in casa editrice, nel gruppo di lavoro per la storia e nel consiglio editoriale, dove si spese sempre con passione a difesa della ricerca innovativa anche quando i suoi prodotti avevano poco mercato, ma al tempo stesso nella promozione di opere in cui si servisse la passione per la conoscenza e non la ricerca del consenso accademico.

Prodi è stato fedele sino all’ultimo a questo modo di intendere il servizio agli uomini del proprio tempo e alla conoscenza: dimensioni che non sono in contrasto come aveva imparato sin da giovane e come ha continuato a insegnarci sempre.