Cento anni dopo la ratifica del 19° emendamento che riconobbe il voto alle donne e 55 anni dopo il Voting Rights Act che garantì il rispetto del diritto di voto agli afro-americani, le travagliate, e ancora non del tutto concluse, elezioni di quest’anno vedono comunque un risultato storico, la nomina di Kamala Harris, prima donna, di discendenza indiana e caraibica, alla vicepresidenza.

Non è ancora la rottura definitiva del soffitto di cristallo, ma ci siamo andati molto vicini. Non ce l’aveva fatta Geraldine Ferraro, nel 1984, e men che meno Sarah Palin nel 2008. Nel primo caso, la nomina di Geraldine Ferraro si inseriva in quel processo di rinnovamento e apertura del partito democratico per cercare di risollevarsi dalla cocente sconfitta del 1968 che aveva messo fine alla sua egemonia sulla presidenza. Sull’onda della necessità di ricostruire una coalizione altrettanto potente di quella che aveva dominato dagli anni Trenta in avanti, il partito democratico si stava aprendo al voto delle donne, dei giovani, delle minoranze. Geraldine Ferraro dovette fare i conti con le resistenze e gli stereotipi legati al suo essere donna, italo-americana, i media si accanirono sul marito, sul suo abbigliamento ‒ troppo femminile più adatto a una moglie che non a una candidata alle presidenziali, si osservò – sulla sua autorevolezza e capacità. Sarebbe stata, le chiese un giornalista, risoluta abbastanza da premere il bottone dell’arma atomica? D’altra parte la stessa Ferraro si presentava soprattutto “come una madre che aveva a cuore il benessere dei suoi figli”. Una madre, prima ancora che un’avvocata, che il sabato andava a fare la spesa come tutte le donne della classe media dei suburbi bianchi.

La scelta di McCain nel 2008 era palesemente opportunistica in un’elezione che aveva visto la corsa di Hillary Clinton alle primarie democratiche e la nomination del primo afro-americano alla presidenza, Barack Obama. Allo stesso tempo era un messaggio lanciato a quell’elettorato femminile repubblicano, spesso organizzato in circoli, associazioni e gruppi di base che, allora come adesso, costituiva spesso la fanteria dell’onda conservatrice. Anche Palin si presentò soprattutto come una madre che però riusciva a conciliare lavoro e famiglia, una “guerriera felice” – come scriveva la «National Review» – che non intendeva giocare la carta della vittima, semmai quella della Grizzly-mom, che non temeva di usare anche le armi se necessario.  

Kamala Harris ha tutt’altra storia e non è una madre. Certo, come Ferraro ha alle spalle una storia legata all’immigrazione, e in particolare ai nuovi flussi provenienti da contesti non europei. Figlia di un giamaicano e di un’indiana arrivati negli Stati Uniti grazie alle borse di studio destinate ai figli delle classi medie dei Paesi in via di sviluppo – segno della generosità dell’America come Buon Samaritano, come aveva scritto Henry Luce nel 1941 –, sembra l’espressione più alta del sogno americano, dell’America come terra promessa, come non ha mancato di sottolineare nel suo discorso, presentandosi con un vestito bianco in onore delle suffragiste di inizio Novecento.

La sua carriera politica, fatta di molti primati, – prima donna "black" a diventare procuratrice a San Francisco e poi attorney general della California, nel 2016 seconda donna nera a diventare senatrice – è stata all’insegna dell’affermazione dell’altra America,quella delle minoranze e della multietnicità, della progressiva visibilità e protagonismo delle donne afro-americane, asiatiche e latine. D’altronde la scelta di Biden si inseriva nella volontà di creare un canale di comunicazione con quei movimenti sociali che fin dal giorno precedente l’inaugurazione della presidenza Trump avevano costituito uno dei terreni di opposizione, la Women’s March e il movimento #metoo e, naturalmente, il Black Lives Matter. Se Harris ha un modello di riferimento questo è stata Shirley Chisholm la prima donna afro-americana a essere eletta nel 1968 e la prima a intraprendere la corsa alle primarie presidenziali nel 1971. Una corsa che si interruppe anche perché Chisholm non ebbe l’appoggio del movimento femminista, soprattutto bianco, che nel 1972 preferì sostenere George McGovern. Ma Chisholm ha costituito un modello di riferimento, fra le fondatrici del Congressional Black Caucus e del National Women’s Political Caucus, non solo per Harris ma per molte donne nere (e non) che hanno dovuto sperimentare le difficoltà e le barriere di un sistema politico, come quello americano, che vede ancora gli Stati Uniti al 75° posto della classifica mondiale secondo i dati forniti dalla Inter-Parliamentary Union. 

E quanto tali barriere siano forti lo dimostra la campagna elettorale di quest’anno che, in modo ancor più evidente che in passato, ha evidenziato come le strategie di delegittimazione non abbiano mancato di usare stereotipi razzisti e sessisti nei confronti di Harris: dalla storpiatura del nome ad opera di Trump e dei suoi seguaci, alla richiesta di presentare il certificato di nascita per dimostrare di essere nata sul suolo americano, alla campagna, infine, di disinformazione. Secondo alcuni istituti di analisi, dopo l’annuncio di Biden della scelta di Kamala Harris, sono stati individuate più di un milione di citazioni su Twitter e Facebook che rimandano a notizie false, quattro volte più di quanto non abbia riguardato le candidature maschili. Per non parlare dei meme che hanno associato Harris a immagini pornografiche. Mandy Greenwald, una consulente del partito democratico, ha sostenuto che solo Madeleine Albright si è sottratta a questa strategia rappresentativa essendo stata una delle poche leader che hanno potuto offrire l’immagine di forza senza essere chiamata “bitch”.

I commenti della stampa conservatrice a proposito dell’unico dibattito che ha opposto Kamala Harris a Mike Pence hanno ripreso, ad esempio, l’immagine della “angry black woman”, dissezionando il suo linguaggio corporale, stigmatizzando il modo in cui Harris volgeva lo sguardo o inclinava la testa o mettendo sotto la lente del microscopio le sue espressioni facciali.

A dispetto delle pulsioni sessiste e razziste, abilmente alimentate dal linguaggio aggressivo e delegittimante di un Trump che non accetta la sconfitta, la nomina di Kamala Harris rappresenta l’esempio più evidente di un’America multietnica e plurale che non può essere ricacciata ai margini a favore della nostalgia di un modello che non esiste più. La nomina di Harris si situa sulla scia di quel cambiamento segnato dalla vittoria di Obama e che oggi dimostra di non essere stato un mutamento temporaneo, nonostante la realtà di un’America polarizzata e di una parte, tutt’altro che marginale, che non accetta di rinunciare alla rappresentazione dell’America come una “white man republic”, ma il segno della certificazione del mutamento dei tempi. Anche da questo punto di vista la presidenza Biden-Harris sarà una presidenza di transizione o meglio di traghettamento. Vediamo se in funzione di una presidenza Harris, come già molti sottolineano. Intanto, un problema di protocollo e di prassi comincia ad assillare il chief usher della Casa Bianca: quale ruolo avrà il coniuge della vicepresidente, Doug Emhoff, il Second Gentleman, in attesa di conoscere il First Gentleman?