Prima di votare al referendum bisognerebbe sapere qual è il lavoro del parlamentare (del buon parlamentare, dico: non parlo dei perditempo) specialmente in regioni particolari, come è stato, nel mio caso personale, la Sardegna.

Nella sedicesima legislatura (2008-2013) sono stato deputato del Pd eletto nel collegio unico sardo. Del Pd eravamo in 7. Io stavo a Sassari e dovevo coprire un’area pari alle due province di Sassari e Nuoro, cioè dalla Gallura alle tre Barbagie. Chi conosce lo stato delle comunicazioni sarde sa che i treni sardi in pratica non esistono. Tra il Nord e Cagliari, dove spesso il deputato deve esserci per dovere istituzionale, ci sono 300 chilometri, e non di autostrada. Certe zone sono inaccessibili: non a caso il tema delle "zone interne" abbandonate domina da tempo il dibattito sulla questione sarda.

Un buon deputato sta alla Camera dal martedì, tarda mattinata, almeno sino al giovedì sera (ma Giorgio Macciotta mi racconta di un consiglio prezioso ricevuto da Fernando Di Giulio: il giorno chiave del buon deputato è il venerdì, quando la Camera è deserta, i funzionari sono a disposizione, gli strumenti di studio facilmente agibili).

A fine settimana il buon deputato torna al suo collegio, dove non riposa: deve ricevere gli elettori e farsi carico dei problemi individuali e di comunità, partecipare a iniziative politiche locali, studiare i dossier, preparare l’attività della settimana successiva. Questo impegno non è scritto nelle norme, è volontario, ma è fondamentale per i legami con l’elettorato. È vero che da tempo i parlamentari sono eletti per modo di dire, messi in lista dai partiti in assenza di vere designazioni e verifiche da parte dei cittadini; ma è altrettanto vero che un contatto continuo, umano con donne e uomini in carne ed ossa, come avrebbe detto Gramsci, è l’alimento del buon lavoro parlamentare: spesso in aula e in commissione il deputato tratta di questioni pratiche del territorio, come un tribunale che chiude, una scuola senza insegnanti e priva di strutture, una fabbrica in crisi… Naturalmente tutto ciò implica una dialettica coi rappresentanti delle autonomie, i quali trovano nel deputato il canale per accedere all’area del Parlamento e da questa a quella del governo. Basta leggere gli Atti parlamentari per capire questa dimensione nient’affatto “minore”, anzi dominante, del lavoro parlamentare.

Difficilmente il buon deputato riesce a visitare nei 5 anni della legislatura il suo collegio per intero. Io per esempio non ci sono riuscito. Ho scelto alcuni terreni di azione (ero in commissione giustizia, ad esempio, e ho privilegiato quei problemi: tribunali, carceri, lentezze della macchina giudiziaria). Ma mi sono molto occupato anche della chimica che chiudeva, e dei trasporti (interni e esterni), della disoccupazione, dei ritardi nelle opere pubbliche, dell’ambiente). Ho presentato una gran quantità di interrogazioni. Inutili? Sì, spesso rimaste agli atti, senza risposta: ma tuttavia piccoli segnali ai cittadini, che le loro buone ragioni trovavano almeno un’eco in Parlamento.

Non voglio qui elencare i temi di cui mi sono occupato. Non ho fatto niente di speciale, molti dei miei colleghi facevano altrettanto e magari anche meglio di me. Certo, molti campi pure importanti non li ho potuti toccare. E me ne dispiace molto.

La gente non lo sa, ma un buon deputato passa gran parte del suo tempo a Montecitorio non nell’aula (la cui immagine deserta è spesso sbattuta in prima pagina dai media) ma in commissione. Le commissioni (tematiche) sono come le arterie del Parlamento. Lì, in gruppi più ristretti e in un faccia a faccia meno formale, si istruiscono i provvedimenti, si emendano trovando spesso accordi tra gruppi i testi che andranno poi al voto dell’aula. In determinati casi si vota definitivamente, anche. È importante che in tutte le commissioni siano rappresentati i gruppi presenti nelle Camere, anche quelli di estrema minoranza. Ed è consigliabile che vi siedano parlamentari di varia estrazione geografica (Nord, Sud, Centro) se non addirittura esponenti di tutte le regioni. Ciò per un’elementare ragione: che l’Italia è un paese molto frammentato, nel quale pluralità delle domande di governo e degli interessi territoriali deve trovare in Parlamento una sede di ricomposizione. Di questo problema, e in genere delle commissioni e di come sarebbero dopo l’eventuale taglio imposto della riforma, non ne parla nessuno. Eppure è qui, nel cuore della macchina, che risiede il meccanismo del suo funzionamento.

Se passa la riforma, per bene che vada, i deputati sardi saranno la metà. È bene che accada questo? Si dice: ma c’è la rete delle autonomie locali. A parte che il senato delle Regioni, già vagheggiato alla Costituente, non esiste, abbiamo un’idea del rapporto spesso conflittuale tra le Regioni e il centro? E tra le Regioni e le autonomie locali? O tra le stesse Regioni tra di loro? Chi comporrà questa conflittualità in una sintesi, se non ci sarà un Parlamento radicato anche nei territori? Consapevole dei loro problemi?

Io temo che chi sostiene il “sì” abbia una visione astratta del problema. Penso che i legami con i cittadini, già oggi labilissimi per effetto delle cattive leggi elettorali, saranno dopo la riforma puramente teorici e che il grado di rappresentanza si ridurrà ulteriormente. Avremo, nel caso migliore, specialisti di legislazione a Roma (una legislazione fatta di norme senza radici nei problemi del Paese reale), privi delle antenne che devono collegare il legislatore ai cittadini.

A me basta questo per votare “no”.