Sarebbe profondamente sbagliato ridurre a una semplice polemica estiva l’opposizione di Vittorio Sgarbi all’affidamento a Stefano Boeri di un “piano strategico” per rendere Urbino maggiormente degna di essere un sito Unesco.

Di là dall’insensatezza dell’assunto – voler accrescere la bellezza di una città già meravigliosa quale è quella del Duca Federico e di Raffaello –, la questione di cui si tratta è infatti di molta maggior sostanza. Detto in sintesi, tra chi abbia la consapevolezza che la presenza del passato è sostanzialmente irrimpiazzabile perché il mondo d’oggi non ha nulla con cui sostituirla (all’incirca Sgarbi) e chi invece sostiene la piena legittimità di operare quella sostituzione con gli strumenti della tecnica moderna (all’incirca Boeri). E qui vale la pena riprendere un'affermazione di Giovanni Urbani, la mente più lucida che si sia misurata su questi temi nel Novecento, e peraltro anche la più inascoltata. Osservava Urbani che Saint Simon (siamo quindi agli albori della civiltà industriale) scrive in una sua lettera di non trovare contraddizione alcuna tra produzione industriale e bellezza o, per meglio dire, tra prodotto industriale e prodotto tradizionale della creatività umana. Vulnus nei fatti arrivato fino a noi nell’evidenza che quanto oggi sopravvive di quella passata creatività ha una qualità di manifattura verso cui l’industria è sostanzialmente indifferente. Che è la ragione profonda per cui Sgarbi si oppone a Boeri.

Ciò premesso, va subito dopo sottolineato che Urbino è forse l’unica città italiana il cui tessuto connettivo urbano ha miracolosamente conservato la propria integrità formale storica. Ciò grazie allo speciale ruolo di campus universitario che la città ha assunto nel secondo dopoguerra, cioè dopo la rifondazione che Carlo Bo ha operato di quell’università, allora dimenticata sui monti delle Marche.

Passiamo adesso a esaminare gli interventi vicini a un “piano strategico” di riqualificazione dell’esistente realizzati in questi ultimi decenni a Urbino. Pochissimi, perché hanno riguardato solo i palazzi storici meritoriamente acquistati dall’Università per trasformarli in altrettante sedi di Facoltà. Interventi quasi tutti operati dall’architetto Carlo De Carlo, indicato nella polemica come maestro di Boeri, quindi una sua garanzia. E interventi con i quali l’architetto genovese ha svuotato (demolito da terra a cielo) l’interno di quei palazzi per poi ricostruirli in cemento, pur con tentativi di storicizzazione. Ad esempio, aver posto in opera in quei suoi nuovi interni delle scale sul modello delle rampe che servivano per far salire e scendere i cavalli dal Palazzo ducale alle stalle della “Data”. Scale-rampe con pedate orizzontali di un paio di metri, perfette per un quadrupede, molto meno per chi sia bipede, come professori e studenti. Mentre nulla dirò della “Nuova porta di Santa Lucia” (qui però De Carlo non c’entra nulla) voluta dal Comune e ottenuta sbancando un’intera collina e sostituendola con un centro commerciale in cemento armato alto una cinquantina di metri e largo più d’un un centinaio. Un monstrum tale da poter far revocare a Urbino il titolo Unesco di “patrimonio dell’Umanità”, come è stato per il ponte di Dresda.

E qui si passa a un altro importante problema d’ordine generale sotteso al corto circuito “Sgarbi-Boeri”: gli architetti. Oggi in Italia ci sono circa 150.000 architetti, più o meno uno per km2, togliendo alla superficie del Paese laghi, fiumi, catene montuose, ecc. Un numero evidentemente insensato, quindi incontrollabile, anche perché formati in Facoltà in cui la storia dell’architettura è in genere considerata materia secondaria e il disegno addirittura non è più insegnato. Il che significa che i restauri delle architetture costitutive il nostro patrimonio monumentale vengono di norma realizzati da figure che tranquillamente possono non saper disegnare e non conoscere la storia dell’architettura. Tanto che per legittimare la componente storica del “piano strategico” di Boeri i suoi sostenitori hanno evocato Le Corbusier, indicando come punti di riferimento del celebre architetto svizzero Vitruvio e Serlio. Non sapendo che il “Plan Voisin” a cui Le Corbusier ha lavorato dal 1922 al 1940 – quindi evidentemente credendoci – prevedeva il completo spianamento della parte del centro storico di Parigi sulla riva destra della Senna e la sua ricostruzione in condomini cementizi con pianta a croce. Edifici lontanissimi dai canoni di Vitruvio e Serlio, ma in compenso vicinissimi alle carceri di cui ha raccontato pressappoco negli stessi anni Foucault.

Dunque? Dunque benissimo la risoluta presa di posizione di Sgarbi nella speranza che serva al formarsi di una classe di soprintendenti e di professori (e, magari, di politici) finalmente all’altezza di dare una risposta al quesito essenziale posto dal nostro patrimonio storico, artistico e architettonico: quale sia il senso della presenza del passato nel mondo d’oggi.

Un quesito la cui soluzione è oggi resa ancora più urgente dalle misure dettate dal Covid-19. Pandemia probabilmente destinata a durare lungamente e che, con lo smart working, sta trovando un possibile motore per il ritorno nei centri storici delle città e nei piccoli paesi oggi in via d’abbandono. Luoghi che possono però essere riabitati solo riprogettandoli secondo le esigenze poste dai modi di vivere del nostro tempo. Quelle dell’innovazione tecnica e dell’immaginazione scientifica. Tema certamente antico, visto che sempre città e paesi sono andati modificandosi sulla base dei nuovi mezzi tecnici per renderne più confortevoli accesso e abitabilità. Ieri sono state le nuove fogne con cui Joseph Bazalgette, a metà dell’Ottocento, ha salvato Londra dalle endemiche epidemie di colera che la colpivano, e oggi sono certamente la banda extra-larga, ma anche, in Italia, il saper ridisegnare l’esistente storico in forme e proporzioni in grado di far convivere, come si diceva all’inizio, quanto sopravvive della creatività della passata manifattura con l’indifferenza alla storia della produzione industriale.

E qui ci vogliono architetti veri e politici finalmente preparati. Ancor più a fronte dell’entità del problema. Dei 7.914 comuni italiani, 1.934, cioè il loro 24,4%, hanno meno di 1.000 abitanti, ciò senza contare il problema portato dalle frazioni: a caso, il comune di Cagli (PU) ha 8.162 abitanti dislocati su una superficie di 226,43 km2 e comprende 44 frazioni di cui la più abitata è Pianello, che ha 425 residenti, e la meno abitata è Monte Petrano, che ha un solo residente.