«Ti voglio molto molto tanto bene». Ecco il messaggio vocale che mi ha lasciato per settanta giorni di seguito Princesse, una bambina ivoriana di sei anni. Durante il lockdown, a Milano, sentivi solo silenzio e sirene di ambulanze. Silenzio e sirene, sirene e silenzio. Nient’altro. Tutto il giorno così, tutta la notte così. Ma arrivava la sua voce allegra a spezzare: «Ti voglio molto molto tanto bene». Lo diceva ridendo, come si dice una cosa buffissima. Quindi scoppiavo a ridere anch’io.

Ci siamo conosciute in mezzo al Mediterraneo, lei su un gommone in avaria e io su un gommone di salvataggio. Non ho visto nascere Princi come si vede nascere una figlia, ma l’ho vista rinascere, posso proprio dirlo. In quel momento esatto. L’ho vista fare il primo passo dal suo gommone che imbarcava acqua al rhib della Ocean Viking, perché quella notte ero lì, insieme a lei. Era il 24 gennaio 2020, erano le due e mezza, più o meno. Io ero a bordo di Easy 1 e tenevo un bambino di sei mesi in braccio. Princi si è seduta di fronte a me. Ci sorridevamo. Aveva un cappellino bellissimo, pieno di strass, che mi aveva colpita. La mamma l’ha vestita a festa per morire in mare, pensavo.

Ricordo questo dettaglio, il primo della nostra storia. Quel cappello elegante e luccicante. Non potevo farle una carezza perché c’era mare mosso e dovevo tenere stretto il neonato. La gente presa dal panico saltava sul nostro rhib e tutti urlavano. E io pensavo: Adesso cadiamo in mare, è finita, non mi deve sfuggire dalle braccia il bambino. Usavo le mani solo per tirare su il mento a una donna svenuta, per controllare che respirasse. Era la madre di Princi, anche se ancora non lo sapevo. Pensavamo che fosse incinta, invece no, era crollata per la tensione. La mamma, arrivata sulla nave, è stata trasportata in clinica. E Princi ha passato la sua prima notte a bordo su una sedia, di fianco al suo letto.

Il giorno dopo, Princi era sul ponte, da sola (la mamma ancora in clinica). Avrei dovuto fare il mio lavoro, cioè fare interviste in giro. Me ne sono fregata e ho passato il pomeriggio con lei. All’inizio abbiamo disegnato, poi mi sono inventata un gioco a caso per tenerla impegnata. Giochiamo a chiamare i delfini. Sono venuti davvero, non ci potevo credere. Io l’avevo detto così, tanto per dire qualcosa. Di solito, fra l’altro, i delfini si presentavano a prua. Invece quel pomeriggio saltavano a poppa, di fianco alle murate, esattamente davanti al suo naso. Lei urlava di gioia. Anche se era senza voce perché durante la notte passata in mezzo al Mediterraneo si era presa freddo. Nei giorni successivi, cercavo di stare con lei appena potevo. Ma non era facile. Siamo rimasti svegli per settantadue ore di seguito e abbiamo fatto altri cinque rescue, sempre di notte, spesso in condizioni molto difficili, con il mare mosso e la gente agitata. E io andavo sul gommone, con i soccorritori. Quindi ero un po’ impegnata. Anche sul ponte ero un po’ impegnata, però. Perché quattrocento persone sono tante. Princi mi aiutava a distribuire il cibo. Scartava biscotti e riempiva bicchieri di the, per ore e ore, efficiente come una dell’equipaggio, nonostante i suoi pochi anni. Serissima, consapevole, non voleva mangiare finché tutti i quattrocento non avevano ricevuto il loro pacco.

Il momento dell’annuncio dello sbarco in Italia lo abbiamo vissuto insieme, Princi era in braccio a me. E lei per un po’ ha scelto questa immagine per il suo profilo WhatsApp, anche se siamo venute malissimo tutte e due (adesso preferisce una foto mia e di mio marito con una FFp2 in faccia). Per sbaglio eravamo capitate in un gruppo dove l’annuncio era in arabo. Ma su un ponte con quattrocento persone non è facile spostarsi. Mi ha detto in un orecchio: «Non capisco l’arabo». «Nemmeno io», le ho riposto. «Però so che cosa stanno dicendo. Sbarcherai a Taranto, in Italia, e io ti accompagnerò fino alla passerella, fino a terra». Aveva un po’ paura a sbarcare: «Mi mancherai», mi ha detto. «Non ci lasceremo mai, te lo prometto», le ho risposto. L’ho accompagnata fino alla passerella, per mano. Ma non fino a terra, perché in quel preciso momento mi ha chiamata sul ponte di comando la polizia, con urgenza. Niente di grave, era solo una questione burocratica, gestita anche con estrema gentilezza. E così mi sono persa il suo primo piede sul suolo italiano. Mi sarebbe piaciuto vederlo, come il suo primo piede su una nave Ong.

 

[L'articolo completo è pubblicato sul "Mulino" n. 3/20, pp. 535-538. Il fascicolo è acquistabile qui]