La pandemia rappresenta un vero e proprio sconvolgimento del tempo, il cui primo effetto come abbiamo visto è stato e ancora è quello di sospendere a poco a poco il presente della vita quotidiana. Il tempo della malattia si impone come tempo dell’urgenza, della guerra, ma anche paradossalmente come il tempo incredibilmente lungo dell’Antropocene. La crisi in atto potrebbe aprire le porte a un tempo nuovo.

Che cosa ha cambiato nel nostro rapporto con il tempo l’irruzione del Coronavirus? Se in Cina è sorto improvvisamente (almeno dal giorno in cui è stato lecito menzionarlo), in Europa ne abbiamo potuto seguire l’arrivo, pur volendo credere che, forse, avrebbe avuto il buon gusto di non diffondersi troppo al di fuori dell’Asia. Una volta arrivato anche da noi, quali perturbazioni temporali ha comportato quella che ci si è dovuti presto rassegnare a chiamare epidemia? Quali cambiamenti ha indotto, tenendo presente che va a colpire il groviglio di temporalità, già attive e in possibile conflitto, che formano la struttura del nostro quotidiano? È da questa sola angolazione che, non essendo io né un epidemiologo né uno storico della medicina, proverò a osservare la crisi che stiamo attraversando.

È stata sufficiente qualche settimana appena affinché un nuovo vocabolario entrasse a far parte del nostro quotidiano: «distanziamento sociale», «gel idroalcolico», «mascherine» (per molto tempo immancabilmente «mancanti»). Le espressioni «in presenza» e «a distanza» sono divenute consuete, e ad esse si fa ricorso per definire una riunione dove i partecipanti siano fisicamente presenti o si trovino ognuno dietro al proprio schermo. In poche parole, si è intrapresa l’istituzione di una nuova disciplina di interazione corporale, ma senza avere il tempo di inculcarla. Che cosa direbbe Norbert Elias? Può forse essere che i Paesi in cui non c’è l’usanza di stringersi la mano o di abbracciarsi siano avvantaggiati nella lotta contro il Covid-19? Posta sotto il segno di una crisi che ci ha portato in pochi giorni fino allo stato di emergenza sanitaria, questa sospensione delle comuni interazioni corporali (pericolose) e la loro sostituzione con altre (difensive e protettive) si dovrebbero mettere in atto, come è consueto in un regime presentista, istantaneamente o quasi.

Quale ruolo ha allora la boccia dell’epidemia, subito riqualificata in pandemia, nel biliardo delle temporalità consuete? Innanzitutto il presente dell’epidemia mette a soqquadro e ferma a poco a poco il tempo della vita quotidiana (tempo della scuola, tempo del lavoro, dei passatempi ecc.). Ma fin da Ippocrate sta alla medicina riconoscere che la malattia ha, anch’essa, una propria temporalità. Una volta raggiunta la diagnosi, viene la prognosi, ossia l’accertamento del ritmo della crisi, con i suoi picchi, che sono quelli che chiamiamo i «giorni critici», di cui è fondamentale stabilire la periodicità. Poiché, al di sotto  del disordine apparente della malattia, si trova in realtà un ordine che solo l’occhio esperto del medico individua: un ordine di tempo. Questo è ciò che hanno fatto e continuano a fare le autorità sanitarie: giorno dopo giorno, ci presentano grafici e curve che indicano l’evoluzione della malattia.

Se con Ippocrate si ha una teoria della crisi in base alla sua temporalizzazione (sotto l’apparente disordine c’è un ordine temporale), grazie a un altro greco, Tucidide, disponiamo della prima descrizione di un’epidemia, la peste che colpì Atene nel 430 a.C. Io non ne ricordo che un aspetto: la situazione di anomia che dilaga nella città. Tucidide nota lo sconvolgimento delle usanze e il disordine dei comportamenti. Non si potevano compiere i riti funerari, «ciascuno seppelliva come poteva». A che scopo faticare per un obiettivo elevato, quando il giorno dopo si sarebbe potuti essere morti? «Il piacere immediato […] ecco che prendeva il posto sia del bello che dell’utile». Fortunatamente, noi non siamo a quel punto!

Il tempo della pandemia ha portato all’istaurazione di un tempo nuovo, quello del confinamento: tempo sanitario, dato che il confinamento è stato il solo strumento a nostra disposizione per rallentare la progressione del virus, affinché la curva esponenziale cessasse la sua crescita implacabile. Guadagnare tempo, rallentandolo, potrebbe stupire di primo acchito, quando non si sogna che di essere liberi. Ma il tempo del confinamento è stato anche un tempo prettamente sociale e perciò politico, a cui le autorità politiche non hanno rinunciato. La questione del nome dell’avvenimento è in questo senso fondamentale. Epidemia, pandemia, sì, ma rimaniamo nella sfera della medicina. Emmanuel Macron ha giocato una carta vincente dichiarando lo stato di guerra. Chi dice guerra dice tempo di guerra, che contemporaneamente diventa un tempo fagocitante e del tutto in mano al potere politico.

Sottomessi al tempo della pandemia, si siamo piegati al tempo del confinamento: ci siamo inventati un ordine di tempo ciascuno per conto proprio, senza però che fosse troppo slegato dal tempo collettivo. La nuova disciplina di interazione corporale, accennata in precedenza, è concepita per l’esterno prima di tutto. Di che disciplina di vita e di che rapporto con il tempo è strumento il confinamento? Etimologicamente, il confinamento è un fatto di limiti e di frontiere. Il confinamento ha due significati, a seconda che un soggetto “si” confini o “venga” confinato. Nel primo caso, confinarsi è ritirarsi; nel secondo, è essere relegato, e ciò può equivalere a una sorta di morte civile. È perfettamente comprensibile che il confinamento o la minaccia di confinamento suscitino subito in chi ne ha i mezzi il desiderio di scappare: per scappare dall’epidemia, per mettersi al riparo (o crederlo), per confinarsi e non essere confinato, per sottrarsi in parte ai rigori del tempo del confinamento.

Oltre che spaziale, il confinamento è anche temporale: con esso si instaura un tempo inedito. Prima, il Covid- 19, invadendo sempre più tutto lo spazio mediatico, era come una serie tv, di cui si sperava di vedere tutte le stagioni a velocità raddoppiata. Ma, una volta decretato il confinamento, tutto è cambiato, e noi stessi siamo diventati personaggi all’interno della serie. Sottomessi al tempo della pandemia, abbiamo abitato il tempo del confinamento: trovare modi di impiegare il tempo (i consigli non sono mancati), scandirlo (le poche uscite autorizzate), riempirlo, marcare i momenti salienti (gli applausi delle 18 rivolti al personale sanitario...).

Inoltre, il confinamento non ha fatto svanire il presentismo ambientale, ma piuttosto l’ha rinforzato. Si è trattato, in effetti, di un confinamento connesso, molto più che di un ritiro solitario. Abbiamo a disposizione tutta la tecnologia: abbiamo potuto fare il giro del mondo senza uscire dalla nostra stanza, prender parte ad aperitivi su WhatsApp con tutti i nostri amici, ascoltare un concerto a Vienna o a Berlino, seguire in ogni istante ciò che stava succedendo ovunque. Vedere tutto, sentire tutto, essere presenti a tutto... mancava solo la presenza fisica.

Ma esiste anche un altro confinamento, quello di tutti coloro che non sono connessi per nulla, o di coloro per cui la quotidianità è nelle reti sociali reali. Il divario digitale ha attraversato anche il confinamento e i rapporti con il tempo che esso induce, compresi i rifiuti e le negazioni dei cosiddetti «recalcitranti» al confinamento. Infine, ci sono anche tutte e tutti coloro che sono sempre dovuti andare sul loro luogo di lavoro. Qui si crea un altro conflitto di temporalità. Costoro hanno, per così dire, sempre mantenuto un piede nel tempo di prima e un altro nel tempo nuovo.

In senso più ampio, il tempo della pandemia si è scontrato con il tempo dell’economia. Alle curve esponenziali della prima hanno risposto le curve in caduta libera della seconda. Questa caduta, che i mercati dall’occhio fisso sull’immediato hanno amplificato, avrà conseguenze principalmente in futuro, il che fa sorgere la questione del dopo. Tra il tempo della malattia, controllata dai medici, e l’urgenza, che è una delle parole-chiave del presentismo, è sorto un conflitto di temporalità, che si è cristallizzato attorno alla questione della messa a punto di una terapia e di un vaccino. In una serie tv, il copione vorrebbe che il ricercatore geniale ed emarginato scoprisse la buona molecola che, all’ultimo momento, arriva a salvare l’umanità. E nella realtà?

Il punto su cui tutti sono d’accordo è quello dell’accelerazione: bisogna, ripetono, «accelerare» i trial clinici, accelerare le procedure di validazione. Ma fino a che punto i tempi dei protocolli scientifici possono venir ristretti, senza che perdano validità? La speranza di una terapia e, più tardi, di un vaccino, viene a interrompere il corso inesorabile del tempo della pandemia e mostra un orizzonte. Ma in nome dell’emergenza, indiscutibile, si vuole che questo orizzonte non solo si avvicini più velocemente, ma che sia già qui. Per alcuni, è già qui. Ignoro se questi abbiano torto o ragione, e fino a che punto, ma l’immediatezza dell’emergenza tende a soppiantare tutte le altre temporalità.

Nella scia dell’emergenza rientra anche il tempo del ritardo. L’emergenza è una corsa in avanti senza fine: per non farsi superare, bisogna senza tregua agire prima che sia troppo tardi. Si troverà sempre qualcuno, bene o male intenzionato, che denunci il ritardo. Ma quando l’emergenza è onnipresente, come stabilire una gerarchia tra le emergenze? Diventa indispensabile tenere conto di un dopo, quando sarà cessato il tempo di guerra e il virus sarà scomparso. Di fatto, si è iniziato a parlare di un prima e di un dopo la crisi, e di un dopo che non potrà essere la semplice ripresa del prima. Sotto molti punti di vista, c’è da augurarselo, ma vedremo cosa accadrà realmente. In ogni caso, è certo che non si può fischiare la fine del presentismo via decreto, e abbiamo appena visto come il tempo del confinamento sia allo stesso tempo una rimessa in causa del solo presente e un’intensificazione dell’influenza del presentismo tramite la tecnologia su cui facciamo sempre più affidamento.

All’inizio, ho menzionato la contraddizione tra il nostro presente presentista e il tempo incredibilmente lungo dell’Antropocene. Se anche quest’ultimo ha perso visibilità mediatica durante le scorse settimane, non è affatto scomparso e ci aspetta, oserei dire, a piè fermo. Molti di quelli che se ne preoccupano e cercano da tempo di convincerci che il nostro vero orizzonte è quello del riscaldamento globale, per usarne il nome ormai divenuto comune, invitano a servirsi della crisi mondiale causata dal Coronavirus per adottare «una strategia più ambiziosa» ed entrare nella «resistenza climatica». La grande crisi che attraversa il mondo è un'occasione, un kairos, che, interrompendo le temporalità abituali del tempo chronos, aprirà le porte a un tempo nuovo? Ne sarà l’incipit?

 

[Questo testo rielabora un articolo pubblicato su "AOC-Analyse Opinion Critique" il 1° aprile scorso. La traduzione è di Antea Grilli]