Gli afro-americani tra pandemia e proteste. Accantonato un po’ ovunque il mito del «great equalizer» – del virus come livellatore delle differenze di classe del neoliberismo – è emerso che le fasce di popolazione più colpite dalla pandemia sono quelle afro-discendenti. Dall’America Latina, al Regno Unito, agli Stati Uniti le popolazioni nere sono affette dal virus in percentuali almeno doppie di quelle bianche, con incidenze di mortalità spesso ancora più alte. Proprio negli Stati Uniti martoriati dalla pandemia sono stati gli afro-americani ad essere colpiti più duramente: a fronte di una popolazione di circa il 13%, il 23% delle oltre 100mila vittime di Covid sono neri. Molteplici i fattori che spiegano questa maggiore incidenza. Da una condizione sanitaria precaria in cui obesità, diabete e ipertensione sono ampiamente diffuse, alla carenza o all’assenza di coperture sanitarie che hanno portato molti afro-americani ad attendere prima di cercare assistenza, per poi presentarsi nei pronto soccorso con quadri clinici compromessi. A questo vanno aggiunti altri tre elementi. Il primo è che gli afro-americani ricoprono in percentuali rilevanti molti dei lavori essenziali che non si sono fermati durante la pandemia – autisti, custodi, infermieri, cassieri, personale di assistenza – porzioni della forza lavoro particolarmente colpite in virtù della loro sovraesposizione al virus. La pandemia, sebbene abbia più che triplicato i tassi di disoccupazione, ha infatti quasi appianato le differenze tra bianchi e neri, adesso rispettivamente al 14,2 e al 16,7%. Il secondo è che un numero percentualmente maggiore di famiglie afro-americane rispetto ad altre etnie vive in appartamenti multigenerazionali, in nuclei numerosi dove misure come l’isolamento di un malato diventano particolarmente complesse. Infine, gli afro-americani detengono solo il 2,6% della ricchezza a livello nazionale, un dato che spiega come migliaia di famiglie non siano state in grado di rispondere alla crisi economica della pandemia con gli stessi strumenti – in particolare relativamente alle spese sanitarie – dei bianchi.

Le proteste in seguito all’uccisione di George Floyd sono una risposta a un evento non episodico che ha posto sotto i riflettori un problema strutturale, quello dell’interazione delle forze di polizia con le comunità che dovrebbero proteggere, in particolare quelle non bianche

È in questo contesto – che ha acuito le disparità razziali e esacerbato una fiducia nelle istituzioni già diffusamente compromessa – che devono essere inquadrate le proteste in risposta all’uccisione del 46enne afro-americano George Floyd per mano di un agente a Minneapolis durante un arresto. «Back to normality», un ritorno alla normalità, come hanno scritto molti attivisti. Le proteste, che stanno coinvolgendo praticamente tutte le maggiori città statunitensi, sono una risposta a un evento non episodico che ha posto sotto i riflettori un problema strutturale, quello dell’interazione delle forze di polizia con le comunità che dovrebbero proteggere, in particolare quelle non bianche. Un rapporto complesso, spesso fondato sulla paura, che condiziona la quotidianità di moltissimi neri in modalità inimmaginabili per i bianchi. Un problema sistematicamente trascurato dalle istituzioni e dal sistema di giustizia che ha portato molti afro-americani a trovare modalità di auto protezione, alcune delle quali ampiamente diffuse, come quella chiamata «the Talk», una sorta di iniziazione dei giovani neri all’adolescenza in cui i genitori spiegano ai figli come interagire con le forze di polizia per evitare escalation rabbiose da parte degli agenti. A questo va aggiunto una sostanziale impunità delle condotte violente delle forze di polizia, protette da un sistema di giustizia in cui accusati e giudicanti lavorano a stretto contatto, e una omertà diffusa all’interno dei dipartimenti di polizia che ha portato molti agenti a coprire le violenze dei loro colleghi. Un’interazione complessa, viziata anche da una diffusione capillare delle armi, che causa 1.000 morti l’anno e della quale gli afro-americani sono vittime in percentuali più che doppie rispetto ai bianchi.

Così un nuovo video, particolarmente cruento, ha riacceso una miccia mai veramente spenta. Centinaia di migliaia di manifestanti pacifici in 75 città sono stati spesso oscurati da episodi di violenza contro la polizia e da atti di vandalismo e di distruzione di interi quartieri che hanno portato a centinaia di arresti, due morti, e l’intervento della Guardia nazionale in diversi stati. In 25 città è scattato il coprifuoco. Una misura così estesa era stata presa l’ultima volta nel 1968, durante i violentissimi scontri razziali che hanno seguito l’assassinio di Martin Luther King. Una situazione tesa che il presidente Trump ha contributo a infiammare dalla sua piattaforma preferita, Twitter, che adesso però segnala agli utenti il contenuto violento dei suoi cinguettii. Il presidente ha prima minacciato di sparare ai manifestanti violenti, poi si è scagliato contro Jacob Frey, sindaco democratico di Minneapolis, reo di non aver usato il pugno di ferro con i rivoltosi, per poi tornare a minacciare i manifestanti a Washington di usare «cani feroci e armi minacciose» se avessero osato attaccare la Casa Bianca. Casa Bianca che nella notte di domenica è davvero finita nel mirino dei manifestanti, con fonti che parlano di Trump costretto a rifugiarsi per alcune ore nel bunker presidenziale. Si prospettano, insomma, settimane di forte tensione che difficilmente vedranno una fine delle proteste senza riforme concrete del sistema di giustizia, dei dipartimenti di polizia o senza un approccio sistemico che affronti il problema dell’interazione tra forze di polizia e comunità. Il nuovo movimento, ancora disorganizzato, che ha solo parzialmente utilizzato la rete creata dal movimento Black Lives Matter nel 2014 e con frange violente che nelle manifestazioni di qualche anno fa furono progressivamente emarginate, ha però un compito cruciale e urgente, quello di capitalizzare politicamente un consenso pubblico non scontato.