Abiy Ahmed e il futuro dell’Etiopia alla prova della pandemia. La pandemia mondiale del Covid-19 è arrivata in Etiopia in un momento cruciale per il Paese. Dopo anni di forte instabilità, le elezioni programmate per il 29 agosto erano considerate un test decisivo per il progetto politico del primo ministro e neo-Nobel per la pace Abiy Ahmed. Il 13 marzo l’Ethiopia public health institute ha confermato il primo caso di positività al nuovo Coronavirus nel Paese. Passati tre giorni, il governo ha sospeso le attività scolastiche, sportive e i grandi raduni, e altre misure sono seguite nelle settimane successive. Il 31 marzo quindi le elezioni sono state sospese, e il 10 aprile il Parlamento ha approvato uno stato di emergenza di 5 mesi, assegnando ampi poteri al governo per affrontare l’epidemia.

In un Paese di circa 110 milioni di persone, molte delle quali nelle aree rurali senza un vero e proprio rapporto formale con le istituzioni dello Stato, dove le infezioni respiratorie sono già tra le principali cause di decessi, è difficile avere dati attendibili sulla diffusione del virus e il numero delle vittime. Certamente, molti vivono in condizioni di grande marginalità, senza accesso a strutture sanitarie adeguate o semplicemente ad acqua corrente, per non parlare della scarsità di strutture specializzate per le terapie intensive. La sensazione dell’escalation dei casi ha comunque raggiunto i media come la popolazione stessa, in seno alla quale focolai di xenofobia sono sorti qua e là per una malattia “importata dall’esterno”, magari dagli untori bianchi e benestanti del Nord. Non è facile calcolare anche le conseguenze economiche dell’onda d’urto che sta colpendo le esportazioni e delle pur limitate misure di limitazioni ai trasporti e lockdown attuate dal governo, ma non è neanche difficile immaginare come queste ultime, ad esempio, possano colpire duramente quei larghi settori della popolazione che vivono di attività informali, spesso legate al caotico piccolo commercio. Ma dietro questi scenari si gioca anche il futuro politico dell’Etiopia, legato al progetto di unità nazionale del noto primo ministro: lo stato di emergenza potrebbe comportare un maggior potere di controllo del governo federale sugli stati regionali, sede questi di un fuoco incrociato contro il potere di Abiy Ahmed; cartina di tornasole potrebbe essere ad esempio l’evolversi della situazione nell’Oromia, epicentro dell’instabilità sociale e politica del Paese degli ultimi anni.

Monarchia imperiale fino al colpo di Stato militare del 1974, l’Etiopia poi era stata governata da un governo a partito unico di stampo marxista-leninista, caduto infine nel 1991 sotto l’azione congiunta di alcune organizzazioni regionali con alla testa i tigrini e gli eritrei. Con l’indipendenza dell’Eritrea nel 1993, la nuova democrazia etiope si è sviluppata dalle elezioni del 1995 con al governo l’Ethiopian people's revolutionary democratic front (Eprdf) e sotto la leadership della componente tigrina, nel contesto di un sistema federale con una Costituzione etichettata come “etnica” per via della teorica possibilità di ciascun delle sue componenti, organizzate su una base territoriale legata a storiche rivendicazioni identitarie, di secedere dalla Federazione stessa.

Un equilibrio molto precario, con forti sperequazioni nella gestione del potere e delle risorse (tra cui la terra), da cui è emersa in modo dirompente nell’aprile 2018 la nuova leadership di Abiy Ahmed, non più un tigrino bensì un oromo. Il nuovo primo ministro ha lanciato forti segnali di ricomposizione interna, con la liberazione di prigionieri politici e l’avvio del dialogo con le opposizioni, e di distensione esterna, con il famoso accordo di pace con l’Eritrea con cui l’Etiopia dal 1998 era entrata in guerra. Dopo l’assegnazione del Nobel, la leadership di Abiy Ahmed però è andata incontro a nuove accuse di gestione personale e autoritaria del potere, e di aver tradito anche le attese oromo che avevano alimentato la sua ascesa politica in seno al fronte di governo; accuse che negli ultimi tempi minacciavano seriamente proprio il “Prosperity Party”, il nuovo partito lanciato nel dicembre scorso da Abiy Ahmed al posto dell’Eprdf quale progetto di unità nazionale contro le storiche fratture del Paese. Al nuovo soggetto si sono opposti la componente egemonica dell’ex fronte di governo, il Tigray people's liberation front, e varie opposizioni in seno agli stati regionali che ne vedono una minaccia alla propria autonomia locale.

È su questo quadro dunque che si è aperta la crisi sanitaria. Ci si domanda ora se lo stato di emergenza sarà sfruttato per fortificare misure di controllo tipiche del passato autoritario del Paese, o se darà paradossalmente più tempo al negoziato interno e un motivo in più per condividere con le opposizioni un percorso comune, sulla crisi sanitaria come su una crisi politica e sociale di nuovo sull’orlo di una profonda spirale di violenza. Le poste in gioco sono tante per uno Stato leader nella regione e nel continente, a cui le potenze mondiali non hanno mai fatto mancare uno sguardo interessato per la sua rilevanza geo-strategica. Al dialogo con una comunità internazionale pronta a sostenere la stabilità politica e il corso democratico che la nuova figura di Abiy Ahmed sembrava promettere, ora l’ambizioso primo ministro da copertina dovrà rimettere in carreggiata anche i rapporti regionali già in crisi (si vedano ad esempio quelli con Egitto e Sudan sulla questione della diga sul Nilo) e soprattutto dovrà saper far corrispondere anche un difficile dialogo nazionale sullo sfondo di una crisi economica con pochi precedenti. Dialogo che, ad esempio, potrebbe rivelarsi sulla questione di chi, e in che modo, governerà il Paese per la gestione dell’emergenza sanitaria e la riorganizzazione delle elezioni dopo la scadenza naturale della legislatura il 30 settembre, data dopo la quale alcuni Stati regionali hanno minacciato di indire comunque le proprie elezioni parlamentari fino a dichiarare la secessione.