Il 20 maggio ricorreva il cinquantesimo anniversario della legge n. 300/1970, lo Statuto dei lavoratori, quella che con le modifiche subite nel corso del tempo resta ancora la normativa di riferimento per i rapporti di lavoro. I toni della ricorrenza sono stati sicuramente meno accesi di quanto sarebbe accaduto quindici, dieci e forse anche cinque anni fa, quando si erano messi in discussione alcuni dei suoi punti più controversi con la durissima opposizione delle rappresentanze sindacali. Probabilmente si è visto da allora che non era la declinazione di un singolo articolo a sancire il mantenimento o lo smantellamento di un intero universo di diritti sociali, e la particolare situazione che stiamo vivendo impone certo altre priorità.

Certo, non sono mancate le voci che da una parte hanno rivendicato la normativa come una conquista sociale e culturale, invocando un ripristino del suo spirito in consonanza con le nuove esigenze, e dall’altra hanno sì riconosciuto l’importanza dello Statuto alla sua nascita ma hanno messo in evidenza il consolidarsi attorno ad esso di una cultura del lavoro nemica del merito individuale e dell’impegno, poi sfociata in espedienti maldestri come il preteso “reddito di cittadinanza”. Mi sembra tuttavia importante che, dopo anni di scontri senza esclusione di colpi e di incomprensioni reciproche, speakers che prima non sarebbero riusciti a non sovrapporre le loro urla trovino adesso i toni per un dialogo costruttivo fondato sulla necessità di reinterpretare i diritti sociali fondamentali e di tutela economica e di rappresentanza, al fine di garantire sostegno a quel lavoro “liquido” sempre così sfuggente a ogni logica di appartenenza tra dipendente e “padrone”. Provo così a dare il mio contributo a una lettura storicizzata dello Statuto dei lavoratori e della sua genesi, che ci consenta di guardarlo superando il “fissismo” di cui alcune sue norme e interpretazioni sono state vittime.

In primo luogo, si deve considerare la cultura giuridica, istituzionale e sociologica in cui lo Statuto del 1970 è stato prodotto ritornando ai suoi promotori e, soprattutto, estensori. Se è infatti vero che una legge quadro di questo tipo era già tra gli auspici di Giuseppe Di Vittorio nel primi anni Cinquanta, non bisogna dimenticare che a porre le condizioni per la sua estensione fu un contesto diverso da quello in cui operava il leader sindacale pugliese, quello della partecipazione dei socialisti alle responsabilità di governo col ministro del lavoro Giacomo Brodolini, e soprattutto quello in cui poté assumersi la responsabilità diretta della sua elaborazione un giovane intellettuale di gestione come Gino Giugni.

Il percorso intellettuale di quest’ultimo, in particolare, presenta aspetti significativi. Nel 1951, poco dopo la laurea in Giurisprudenza, Giugni fu uno dei primi Fulbright fellows italiani. All’Università del Wisconsin, il giovane genovese si era trovato di fronte a un modo di affrontare i problemi del lavoro ancora quasi inedito in Italia (dove le sperimentazioni degli “studi corporativi”, non sempre da buttare sul piano teorico, erano naufragate a causa del loro profondo legame ideale col regime), quello della trattazione integrata delle Labor relations sul piano giuridico, economico e sociologico. Sul piano della pratica sociale, inoltre, negli Stati Uniti Giugni si confronta con un New Deal order in pieno consolidamento, per molti versi lontano dall’impianto teorico da cui, nella discussione parlamentare per l’approvazione dello Statuto, il successore di Brodolini, Carlo Donat Cattin, prenderà le distanze parlando di «visioni di tipo americanistico» ispirate dal’estremizzazione di «una mentalità privatistica dei rapporti sindacali», «che vedevano il sindacato come libero agente operante nella società al di fuori di ogni regolazione giuridica». Provvedimenti e pratiche del New Deal, aveva imparato Giugni, pur innestandosi su questo tipo di tradizione dei rapporti professionali, li superavano in buona misura, e offrivano alle rappresentanze dei lavoratori un ruolo non solo di controparte del mondo imprenditoriale, ma di presenza attiva nelle comunità, nonché di tutela di quei valori di partecipazione al benessere e di realizzazione della sicurezza sociale diffusa.

Era possibile, e fino a che punto, “tradurre” questi orientamenti, che avevano mostrato la loro funzionalità nel ricompattare il tessuto sociale anche al di là dei risultati economici della ripresa seguita alla crisi del ’29, al contesto italiano? Il tema della “traduzione”, secondo una metafora molto in uso allora, era centrale nei progetti di trasferimento delle politiche pubbliche, specie quando, negli anni Sessanta, si guardava oltreoceano, al Paese modello della modernizzazione. E la “traduzione” che Giugni impostò si incentrava sulla tutela dei fondamentali diritti civili e politici sul luogo di lavoro, in un contesto anche fisico che nell’ultimo decennio era divenuto incandescente per la crescente conflittualità tra datori di lavoro, assistiti da una legislazione che di fatto demandava loro la tutela dell’ordine in azienda, e un movimento operaio in agitazione perché sempre più consapevole della sua forza innanzitutto contrattuale.

L’obiettivo – a breve termine, bisogna dire, non pienamente conseguito – era quello di avviare il confronto su binari adeguati a una piena democrazia, e in fondo anche di stemperare le punte più accese del conflitto. Era per questo che l’ampia maggioranza che approvò lo Statuto comprendeva tutta l’area di governo di centro-sinistra, compresa una Dc capace di sostenere il documento in blocco sulla spinta delle sue correnti sindacali, e anche il Partito liberale, allora all’opposizione, mentre vedeva l’astensione dei comunisti, certo non ostili all’accordo raggiunto al punto da ritirare tutti gli emendamenti, ma insoddisfatti proprio per l’approccio ritenuto eccessivamente ancorato al piano giuridico-formale.

In quest’ottica incentrata sulla creazione di nuovi e più solidi spazi di libertà, garantiti da un soggetto terzo rispetto alla contrapposizione sociale, va letto anche quello che poi sarà l’articolo 18, destinato a vivere quasi una vita propria nell’applicazione e nella giurisprudenza rispetto al resto del documento. Esso era stato pensato essenzialmente in base al principio per cui si doveva annullare qualsiasi atto discriminatorio e lesivo dei diritti fondamentali di lavoratori e lavoratrici, e offriva a chi era stato oggetto di discriminazione un’arma in più da far valere in sede di giudizio, ma non guardava in sé alla conservazione dello specifico posto di lavoro, anche perché un movimento operaio e sindacale così propositivo in termini di miglioramento delle condizioni lavorative traeva la sua forza da un mercato del lavoro tutt’altro che sonnolento e asfittico da almeno due decenni, rallentamento della “congiuntura” a parte.

Il valore del dettato legislativo e la sua applicazione, insomma, sono mutati rapidamente nel tempo perché è mutato lo scenario socio-economico. Era difficile pensare, durante il dibattito parlamentare, che nel giro di pochi mesi dall’approvazione dello Statuto sarebbero iniziate criticità tali da mettere completamente in discussione le acquisizioni del quarto di secolo precedente, alla luce delle quali la normativa aveva preso vita. Da allora il fronte del lavoro ha mutato segno, e si sono mostrate le criticità insite non nella legislazione, ma nei caratteri sociali e istituzionali preesistenti che essa assumeva, in primo luogo la dimensione “monolitica” delle parti in causa. Quando infatti le rappresentanze operaie e sindacali sono finite sulla difensiva, troppo spesso le garanzie giuridiche del 1970 – nel loro spirito la vera grande acquisizione di quella stagione – sono state usate come uno scudo per chi poteva permetterselo, invece di essere ripensate e rimodulate di fronte a una flessibilizzazione che in molti casi nasconde un vero e proprio sfruttamento ma che in altri è il riflesso dell’innovazione di tecnologie e ruoli.

Questo perché, spesso ce ne accorgiamo, arroccarsi sul dettato del 1970 come fossero le parole, e non i fatti, la vera conquista da difendere da un lato porta il mondo del lavoro a uscire sempre più spesso sconfitto, dall’altro crea la percezione errata di voler difendere con lo Statuto dei lavoratori inamovibilità e inefficienza, mentre la legge del 1970 era innanzi tutto una grande conquista sul terreno dei diritti e soprattutto una iniezione di modernità nei rapporti sociali dalla quale non bisognerebbe, per nessun motivo, tornare indietro.