Le difficoltà economiche dell’Italia si trascinano ormai da tempo e sono state finora ancor più insidiose perché non si sono manifestate in forme dirompenti, ma come un lento degrado che mina l’organismo economico e indebolisce il tessuto sociale con crescenti disuguaglianze. Questo andamento ha reso probabilmente più difficile la maturazione di reazioni adeguate. Così, mentre il Paese perdeva terreno tra le democrazie avanzate, la nostra politica restava avvitata su se stessa in una dimensione autoreferenziale. Questa situazione stagnante è stata repentinamente smossa dal violento shock che si è abbattuto sul Paese per effetto del Coronavirus. Siamo ancora in piena emergenza e non è facile prevedere le conseguenze sul piano economico e sociale di questo evento. Certo saranno particolarmente pesanti e determineranno una grave crisi – forse la più grave dal dopoguerra – che occorrerà fronteggiare con strumenti nuovi. Resta da vedere se l’emergenza, oltre a sollecitare una cooperazione nell’immediato tra i principali attori politici e sociali, favorirà un riassetto politico-istituzionale a più lungo termine in direzione della «democrazia negoziale».

Restare orfani della democrazia maggioritaria. Questo tipo di democrazia, diffusa nell’Europa centro-settentrionale, è caratterizzata da un sistema elettorale proporzionale (con sbarramento), pluripartitismo, ruolo più limitato della leadership personale con partiti più strutturati, governi di coalizione, concertazione tra governo e grandi organizzazioni degli interessi sulle più importanti politiche economiche e sociali. La prospettiva della democrazia negoziale, pur essendo venuta più volte alla ribalta in momenti di crisi e di emergenza, è rimasta nel complesso minoritaria. Il modello di riferimento per la riforma della politica italiana, largamente prevalente per più di un cinquantennio, e sperimentato almeno in parte dagli anni Novanta, è stato quello della «democrazia maggioritaria» di stampo anglosassone. Com’è noto, si tratta di un orientamento che propone una più forte verticalizzazione del potere politico e annovera tra gli obiettivi principali un sistema elettorale pienamente maggioritario con alternanza al potere delle principali forze politiche, un incisivo rafforzamento della leadership personale a livello di partiti e di governo, una più netta prevalenza dell’esecutivo rispetto al Parlamento, e anche una maggiore autonomia del governo dagli interessi e dalle loro organizzazioni («disintermediazione»).

Dopo l’esito del referendum sulle riforme istituzionali del 2016 – il tentativo forse più ambizioso di realizzare pienamente l’assetto maggioritario – si aveva l’impressione che tra molti osservatori e analisti prevalesse una sorta di rassegnata presa d’atto del fallimento della prospettiva che ha animato e dominato la discussione sulla riforma della politica. Archiviate le riforme istituzionali in seguito all’esito del referendum, e venuta meno la legge elettorale ad esse collegata, si aspettava dunque l’ennesima modifica del sistema elettorale (l’Italia ha un primato non certo commendevole per i numerosi cambiamenti introdotti negli ultimi anni, sempre mossi da interessi di parte contingenti). Ci si preparava ora a un sistema proporzionale con soglia di sbarramento da definire (non è certo che alla fine si mantenga quella del 5%) sostenuto dai calcoli a breve delle principali forze politiche. Dopo quello che è successo dall’inizio dell’anno, con l’esplosione dell’epidemia, la prospettiva di elezioni anticipate si è però inevitabilmente allontanata. L’approvazione di una nuova legge elettorale non è più al centro dell’agenda politica, ma si riproporrà più avanti anche in relazione agli esiti del referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari. Conviene comunque parlarne perché un ritorno al sistema proporzionale potrebbe avere esiti diversi a seconda delle scelte istituzionali più ampie che lo accompagneranno. In particolare, se venisse imboccata più consapevolmente la strada della democrazia negoziale, anche sulla spinta della grave crisi da gestire, gli esiti potrebbero non essere così negativi per il nostro sistema politico.

 

[L'articolo completo, pubblicato sul "Mulino" n. 2/20, pp. 183-203, è acquistabile qui