La gestione della pandemia di Covid-19 ha implicato la messa in atto di misure restrittive di lunga durata per conseguire un efficace distanziamento sociale. L’imposizione di queste misure solleva evidenti questioni di tutela dei diritti di libertà di movimento e di associazione degli individui. Non è quindi scontato se e fino a che punto queste misure siano pienamente giustificate e quali siano le ragioni affinché le persone vi si adeguino nel tempo. Le determinanti del grado di adeguamento a prescrizioni di distanziamento sociale sono infatti molteplici. Le modalità con cui le autorità comunicano le ragioni delle decisioni, in particolare, possono incidere sul grado e sulla durata del rispetto delle stesse.

Le misure di distanziamento sociale sono state sancite dal lockdown introdotto dal Decreto #CuraItalia del 25 marzo. Grazie a un sondaggio svolto tra il 18 e il 20 marzo (Compliance with Covid-19 Social-Distancing Measures in Italy: The Role of Expectations and Duration, Nber Working Papers 26916, National Bureau of Economic Research, Inc., 2020), Guglielmo Briscese, Nicola Lacetera, Mario Macis e Mirco Tonin mostrano come le persone intervistate si dicessero propense a seguire tali misure indipendentemente dalla loro durata, anzi scontando la loro possibile estensione oltre il 3 aprile (come poi è stato). La durata attesa dell’estensione variava ampiamente tra individui, con conseguenze sulla disponibilità a modificare gli sforzi di adeguamento. Una parte degli intervistati si è detta pronta a modificare la propria condotta incrementando o riducendo lo sforzo di adesione qualora fossero stati sorpresi da decisioni ampiamente diverse dalle attese sulla durata dell’estensione. Un sostegno aneddotico (temporalmente successivo) a queste tendenze deriva dalle reazioni di protesta personali e collettive (di categoria), spesso sostenute da governatori regionali, che hanno recentemente accompagnato la presentazione delle misure della “fase 2” e che estendono le misure di distanziamento sociale nella durata e nella portata.

Come spiegare queste reazioni? Un'ipotesi è quella della cosiddetta “fatica” che cresce con la sopportazione di restrizioni spiacevoli e prolungate, ma questo legherebbe la reazione alla sola durata delle limitazioni, non all’effetto sorpresa del loro prolungamento. Un’altra spiegazione possibile è che la sorpresa di fronte allo spostamento in avanti di una scadenza possa comportare una diminuzione degli incentivi ad attivare immediatamente gli sforzi per conseguire degli obiettivi di medio termine. Un’ulteriore spiegazione insiste su come una revisione delle decisioni annunciate possa modificare la percezione della qualità della relazione che esiste tra chi esercita l’autorità e chi è oggetto delle limitazioni. Una revisione inattesa può suggerire che le autorità stiano facendo errori o siano poco trasparenti.

All’estremo, una revisione marcata potrebbe indurre a credere che nessun ulteriore annuncio sia degno di credibilità e quindi meritevole di adozione, come se la giustificazione del distanziamento sociale fosse una questione che contrappone chi è soggetto alle restrizioni e chi le impone. Questo stupisce in quanto l’adeguamento alle norme di distanziamento sociale è una misura necessaria per la tutela propria e degli altri componenti della comunità, slegata dal raggiungimento di terzi fini delle autorità, la cui capacità di azione risulta in effetti indebolita dalle defezioni della cittadinanza. Questo suggerisce quindi che nelle decisioni di adeguamento a misure restrittive, soggette anche a progressive revisioni, giochi un ruolo l’idea che i cittadini hanno e percepiscono di avere della relazione con la comunità politica cui appartengono e con le autorità che la governano.

Questa linea di spiegazione ci permette di portare l’attenzione ai modi in cui le decisioni prese sono state comunicate e giustificate alla cittadinanza. In Italia si è scelto di presentare i provvedimenti come vincoli e divieti legalmente riconosciuti (limiti a libertà di movimento con autocertificazione) e coercitivamente imposti a mezzo di sanzioni. I provvedimenti sono stati così presentati come vincoli esterni alla condotta individuale e collettiva, un’emanazione della volontà dell’autorità governativa la conformità alla quale è motivata principalmente dal timore della sanzione. In questo senso essi sono stati presentati come obblighi di natura giuridica, percepiti in quanto tali come estranei alle ragioni per l’azione proprie dei soggetti. Non deve quindi stupire che questi provvedimenti siano stati vissuti come imposizioni da sopportare in attesa di un “liberi tutti”.

In altri Paesi quali Germania, Svizzera e Olanda, provvedimenti similmente restrittivi sono stati presentati e giustificati come una questione di etica pubblica. L’etica pubblica riguarda la giustificazione della condotta che le persone devono le une alle altre in quanto membri della stessa comunità politica. L’oggetto di analisi sono le relazioni di cittadinanza come fonte di obblighi specifici che i membri di una comunità politica hanno nei confronti gli uni degli altri. Presentare le misure di distanziamento sociale come una questione di etica pubblica ha significato tradurre i provvedimenti restrittivi dal gergo dell’obbligo giuridico a quello dell’obbligo politico. L’implicazione più importante di questa traduzione è l’appello diretto alla capacità di regolamentazione individuale e collettiva come base per la messa in atto e la tenuta dei provvedimenti nel tempo. Le ragioni per l’adeguamento alle misure di distanziamento sociale sarebbero, così, da trovare nelle relazioni di responsabilità che le persone hanno le une nei confronti delle altre in quanto membri di una stessa collettività fondata sulla cooperazione sociale.

Distinguere questi due tipi di obblighi e di ragioni per l’adeguamento a essi è importante per comprendere una componente delle reazioni di insofferenza nei confronti dell’estensione delle misure di distanziamento sociale nel nostro Paese, manifestata all’indomani della conferenza stampa del presidente del Consiglio dei ministri Conte del 26 aprile. Fare riferimento ai soli obblighi di natura giuridica implica una “infantilizzazione” dei legami tra autorità e cittadinanza. Le misure di distanziamento sociale vengono così presentate come provvedimenti protettivi di soggetti vulnerabili che, non essendo in grado di tutelare se stessi e gli altri, devono essere indirizzati attraverso vincoli esterni alla propria condotta.

Non è difficile scorgere un atteggiamento paternalistico in un approccio di questo tipo, né dovrebbero quindi sorprendere le reazioni di “disobbedienza” di fronte al protrarsi di queste misure, quando i costi dell’adesione alla norma esterna sorpassano i benefici attesi per la persona. Inoltre, poiché secondo questa lettura la fonte dell’obbligo sta interamente nella forza dell’autorità, le continue revisioni e le incertezze nella comunicazione (si pensi alla famigerata questione di chi sono i “congiunti”) hanno indebolito le ragioni per l’adeguamento in modo progressivo.

Certo, quando si tratta di misure emergenziali che richiedono azioni di urgenza, lo strumento legale può essere di efficacia immediata. Inoltre, esso può essere appropriato per la protezione di categorie particolarmente vulnerabili o che si pensa non siano in grado di proteggersi da soli o a vicenda. Si pensi a un’attività normalizzata ma altamente rischiosa per l’individuo e la collettività come la guida di un’automobile. Benché il numero di morti per incidenti stradali sia ben più elevato di quello relativo alla presente pandemia, l’uso dell’auto è vietato per legge a poche categorie di persone quali i minori o individui, appunto, con diminuite capacità. Per il resto delle persone l’attività è consentita, ma regolamentata. Certamente alcuni obblighi relativi all’esercizio di questa attività sono di natura giuridica (come i limiti di velocità), ma la decisione se intraprendere o meno un’attività rischiosa per se stessi e gli altri viene interamente demandata alla persona, alla sua responsabilità e valutazione dell’impatto che la propria decisione avrà su di sé e su gli altri (per esempio in termini di inquinamento atmosferico).

Sotto questa luce vanno letti i recenti appelli alla responsabilità di cittadinanza, un termine che sembra avere fatto ormai la sua entrata trionfale, seppur tardiva, anche nel dibattito pubblico del nostro Paese. Per esempio, nella conferenza stampa del 29 aprile, il governatore del Veneto, Luca Zaia, nel motivare la necessità di utilizzare la mascherina, di igienizzare le mani e preservare il distanziamento sociale, ha voluto sottolineare tre principi: “metti in sicurezza la tua salute”, “metti in sicurezza la salute degli altri” e “se non lo fai e riparte l’epidemia, dovranno essere imposte nuovamente le restrizioni”. Sembra appropriato interpretare questa comunicazione come un appello al riconoscimento mutuo tra cittadini e cittadine come partner di cooperazione, in una relazione di alleanza reciproca e con le istituzioni quali garanti dei legami di cittadinanza e non autorità terze mosse da interessi estranei agli interessi collettivi. Si tratta di riappropriarsi del gergo della giustizia che fa riferimento ai diritti e ai doveri che le persone hanno le une verso le altre in quanto membri della stessa comunità politica.

Comprendere la questione della giustificazione e del conseguente adeguamento alle misure di distanziamento sociale come una questione di etica pubblica che parla il linguaggio della giustizia cattura questo elemento di reciprocità e cooperazione che sfugge sia al gergo dell’auto-interesse, sia a quello dell’obbligo giuridico, sia a quello, spesso invocato in Italia, della solidarietà. La solidarietà è certamente una risposta meritoria che può essere di grande aiuto alla coesione sociale, ma non può esserne il solo fondamento e non cattura la specificità dei legami politici sollecitati dagli appelli alla responsabilità. La solidarietà può essere a “senso unico”, un gesto virtuoso nei confronti di chi si trova in situazioni di difficoltà. Giustificare l’adeguamento alle misure di distanziamento sociale alle quali siamo chiamati come una questione di giustizia permette invece di comprendere perché l’adeguamento a tali misure faccia parte di ciò che i cittadini e le cittadine devono gli uni alle altre come una regola fondamentale di convivenza che dovrà regolamentare i rapporti reciproci di cittadinanza nella “nuova normalità”.