L’intellettuale - dal latino intelligere: capire - è una persona specializzata nel comprendere le cose della società e, siccome capisce le cose della società, è giusto che venga ascoltata e che abbia un ruolo importante nella società. Da un po’ di tempo si dice che gli intellettuali sono in crisi o che proprio non ci sono più, che stanno in silenzio o che non vengono ascoltati, e si vede in questo un segno di quanto sia mal messa la società di oggi. Io non credo che le cose stiano così. Gli intellettuali non ci sono più, o non vengono più ascoltati, perché non sono più intellettuali, cioè non sono più persone che capiscono la società. Conoscono la società del passato, e questo è certamente importante per capire la società di oggi, ma non conoscono quella odierna, e dunque non la comprendono.
Oggi la società cambia molto velocemente perché è dominata dallo «S.T.E.M.», il complesso costituito dalla Scienza, dalla Tecnologia e dall’Economia di Mercato, che sono tutte e tre legate al cambiamento e alla emarginazione del passato. Gli intellettuali, abituati a cambiamenti più lenti, resistono a questa società. E poi sono spaesati in una società priva di un ideale di futuro, dove i fatti semplicemente «avvengono», senza che il loro futuro sia indirizzabile.

C’è poi la questione delle conoscenze necessarie per capire la società di oggi. Gli intellettuali sono in genere studiosi umanistici, mentre capire la società odierna richiede anche e soprattutto competenze scientifiche. Gli studiosi umanistici analizzano, interpretano, discutono, valutano. In campo scientifico le teorie devono invece essere formulate in modo oggettivo, operazionale, possibilmente quantitativo, e soprattutto devono produrre specifiche predizioni empiriche da confrontare con i fatti empirici, osservati in modo sistematico e possibilmente misurabile. È vero che recentemente le scienze che studiano gli esseri umani stanno scoprendo nuovi modi di formulare le loro teorie e nuovi metodi di ricerca che le rendono più solide e le fanno somigliare maggiormente alle scienze della natura, ma il processo è appena cominciato.
Due cose continuano a differenziare fortemente chi studia gli esseri umani e chi studia la natura. La prima è il ruolo attribuito al linguaggio. Per lo studioso di impostazione umanistica, il linguaggio è tutto: quello che fa è leggere, pensare, discutere con gli altri, scrivere, tenere lezioni e conferenze. Per lo scienziato, al contrario, il linguaggio non è che una parte del proprio lavoro: egli deve anche osservare e raccogliere fatti, formulare teorie che facciano riferimento a fattori misurabili. I nuovi intellettuali che servono per capire oggi le società dovrebbero dunque essere capaci, per così dire, di «uscire dal linguaggio».

L’altra cosa che caratterizza quelli che studiano gli esseri umani è che quasi sempre confondono la realtà con i loro desideri e i loro valori, mentre la scienza è utile solo quando separa nettamente la conoscenza dai desideri e dai valori. Questo è più facile per le scienze della natura ma deve diventare possibile anche per le scienze umane.
Se si vuole capire la società di oggi e suggerire soluzioni per i suoi problemi, bisogna accettare lo spostamento da un punto di vista tipico degli studi umanistici a uno più vicino a quello degli studi scientifici. Ci sono però due cose che la scienza deve imparare dagli intellettuali di impostazione umanistica: guardare la realtà con ampiezza e profondità e mettere la conoscenza a disposizione della collettività. Gli scienziati spesso non alzano gli occhi dai particolari fenomeni che studiano, neppure per guardare a quelli studiati dal collega della porta accanto, e sono completamente presi dal loro lavoro. Hobbes diceva che per aiutare la società a capire se stessa bisogna avere un metodo e del tempo. Gli intellettuali tradizionali non hanno un metodo e gli scienziati non hanno tempo. Se in passato un intellettuale doveva essere attivamente interessato al mondo che lo circondava, e se oggi gli intellettuali devono essere (soprattutto) scienziati, bisogna che gli scienziati cambino.
Le cose oggi stanno cambiando, anche se non in Italia. Sta nascendo una «terza cultura» che cerca di superare la separazione tra le due culture di cui nel secolo scorso parlava C.P. Snow, appunto la cultura umanistica e quella scientifica. Questa terza cultura usa la scienza per capire la società e per suggerire possibili soluzioni ai suoi problemi, ma tenendosi a debita distanza dalla politica e dai partiti politici. Si interessa di politica nel senso della polis, cioè dei problemi della collettività, non nel senso dei partiti.
Esiste però un problema rispetto al migliore utilizzo della scienza e della tecnologia da parte della collettività. All’estero ci sono quelli che si chiamano i «think tank», «serbatoi» di studiosi che esaminano i meccanismi di funzionamento della società. In Italia, mentre in passato esistevano istituti e centri di ricerca con la missione di analizzare la società e di consigliare i politici, oggi non ce ne sono quasi più, e quelli che ci sono spesso si limitano ad aiutare i politici a raggiungere obiettivi già decisi dai politici stessi. E i politici, specialmente oggi, hanno obiettivi a breve termine, che riguardano la parte che li ha eletti e non tutta la collettività.

È interessante guardare ai rapporti tra la scienza e la società mettendosi nella prospettiva del costo degli errori. Se tutti gli errori hanno un costo, più o meno serio, ogni errore ha anche un lato positivo: con gli errori si impara. Gli esseri umani possono prevedere le conseguenze delle loro azioni e così possono prevedere gli errori prima di farli e possono imparare dalle conseguenze previste delle loro azioni, e non dalle conseguenze effettive. Gli esseri umani non hanno solo esperienze reali – come per esempio gli animali – ma anche esperienze mentali.
Il problema è che gli esseri umani non vivono da soli, ma in società, e questo è un dato importante se si considera chi paga il costo degli errori. Se un individuo vive con altri individui e fa un errore, può essere che non sia quell’individuo a pagare l’errore ma che lo paghino gli altri. Tuttavia, se il costo dell’errore è pagato da altri, l’individuo potrebbe non imparare dal suo errore, appunto perché non è investito dalle sue conseguenze negative. Un esempio sono i mercati finanziari, ma il problema diventa ancora più serio se chi fa errori è una persona che decide per gli altri e opera scelte che hanno sistematiche conseguenze per gli altri.
Le società umane non hanno ancora trovato un modo per risolvere questi problemi. La ragione è che le società umane hanno ancora un «cervello animale»: fanno effettivamente errori e, quando va bene, imparano dagli errori effettivamente fatti. Bisogna invece che le società umane si attrezzino per avere un «cervello umano», in modo da poter prevedere e valutare le conseguenze delle azioni collettive prima di metterle in atto, imparando da queste conseguenze previste e non ancora reali.

La scienza, oggi sempre più intrecciata con la tecnologia, costituisce un potente sistema per capire le cause e per fare previsioni sugli effetti delle azioni, molto al di là delle capacità del singolo individuo. Ma la scienza ha molte difficoltà ad essere utile alla società, prima di tutto perché rimane fondamentalmente chiusa in sé stessa. Oggi la divulgazione della scienza avviene attraverso le parole, e perciò ha una efficacia molto limitata. Per far conoscere e capire a tutti come funziona la società e quali problemi deve affrontare, è necessario usare le nuove tecnologie digitali che sono fondamentalmente non verbali e interattive: visualizzazioni, animazioni, simulazioni, interfacce interattive, computer game, realtà virtuale, Internet, computer, cellulari.
Ad esempio, oggi c’è una crisi economica, la crisi di un sistema, quello economico/finanziario, che nessuno (eccetto gli specialisti, ma spesso neppure loro) veramente conosce e capisce. Come si fa a cambiare questo stato di cose? Come si fa a far capire come funziona il sistema economico/finanziario a tutti, dato che tutti vanno a votare? La risposta non è nei libri o negli articoli sui giornali, ma nella costruzione di semplici simulazioni interattive accessibili a tutti che riproducano le entità, i meccanismi e i processi che costituiscono il sistema economico/finanziario e che permettano di vedere che cosa succede se si cambiano i diversi fattori di questa sistema.
Ma il problema non è solo usare la scienza e le nuove tecnologie digitali per fare capire a tutti come funziona la realtà e come potrebbe funzionare. Il problema è anche che è necessario trovare nuovi modi per fare sì che chi governa la società usi di più la scienza, specialmente perché gli errori di chi governa ricadono su tutti.

Quello che abbiamo sostenuto sin qui si può riassumere dicendo che oggi c’è bisogno di nuove menti. Le cose cambiano, e la mente fa fatica a tenere il loro passo. Chi sono le nuove menti? Sono quelle che, prima di tutto, hanno capito la necessità di nuove menti. Sono quelle che sanno che per capire il presente e per dare forma al futuro bisogna conoscere il passato, ma sanno anche che il futuro è la sola cosa che dipende da noi. Sono quelle che sono disposte a uscire dai confini delle cose che fanno. Sono quelle convinte che è soprattutto la scienza che deve aiutarci a capire il presente e a dare forma al futuro, anche se sanno che la scienza è solo uno dei modi di conoscere la realtà. Sono quelle che sono disposte a mettere il dito nelle piaghe.