La pandemia di Covid-19 ha comportato una sospensione delle attività in molti settori. Tra i più immediatamente interessati l’ambito culturale, e le arti visive in particolare. Se nel momento della crisi istituzioni, musei, gruppi indipendenti hanno manifestato slancio e generosità mettendo a disposizione del pubblico, con tempestività e in qualche caso originalità, archivi, collezioni, mostre e interventi appositamente realizzati, è ormai chiaro che la ripresa si preannuncia complessa. Questo a causa delle perdite dovute all’interruzione, ma anche al probabile lungo periodo di transizione per il quale sinora non si sono prospettate soluzioni intermedie e modalità di riattivazione culturale e di fruizione modulate ad hoc per la situazione.

Questo comporta gravi rischi su diversi piani. Uno riguarda i numerosissimi lavoratori coinvolti in questo settore, particolarmente fluido e variegato. L’altro è legato al fatto che l’arte richiede di essere vissuta dal vero: è nell’incontro diretto con l’opera che si può verificare quel confronto sensibile, profondo, che genera non informazione, ma un’esperienza capace di depositarsi, quindi di contribuire alla crescita personale, anche in direzioni inattese. È in nome di questo processo che si può dire che l’arte non è avulsa dall’esistenza di sempre, ma ne fa parte; e che, al di là di implicazioni contingenti legate a fenomeni di massa e di mercato, la sua ricaduta si misura anzitutto nel tempo, in termini di crescita individuale, sociale e di cittadinanza.

È vero che, nei diversi Paesi occidentali, a partire da Francia, Germania, Regno Unito, Stati Uniti, la risposta economica al tema dei musei chiusi, delle mostre e delle rassegne internazionali procrastinate e in molti casi irrecuperabili, delle commissioni sospese e del blocco dei bandi è stata tempestiva, con somme ingenti e ampiamente distribuite. E anche l’Italia si è attivata.

Nel complesso, però, soprattutto nel nostro Paese, l’attenzione è andata anzitutto alle istituzioni e alle organizzazioni, accomunando, peraltro, in molti casi, associazioni artistiche e terzo settore. Si ha l’impressione che restino ai margini di questi provvedimenti le entità e le figure più indipendenti: gli artisti, in primis, e tutti coloro che nel lavoro di ricerca li affiancano. Eppure proprio loro, con il loro sguardo non funzionale, non strumentalizzabile, con i loro continui riposizionamenti e scatti in avanti, rappresentano la linfa di questo settore, e ne custodiscono il potenziale; loro ci consegnano quei simboli che, come asseriva Vita Sackville West in The Garden, possono tenere in vita una civiltà; e che un Paese può portare alti nel mondo. Le loro opere costituiscono un valore intrinseco e un portato di senso, la cui la cancellazione è fatto tragico. Basti pensare a come siano rimasti impressi nella coscienza collettiva la distruzione di Bamyan, di Palmira; il crollo per incuria di parti della Pompei romana; a come la situazione dell’Italia alla fine della Seconda guerra mondiale si riassuma bene nell’immagine del teatro alla Scala completamente sventrato. Di molti eventi del passato non sapremo mai, proprio perché non se ne sono tramandate le tracce.

Oggi stiamo vivendo l’involontaria sospensione di una normalità che, se mai ancora fosse occorsa una prova, il virus ha rivelato essere, in molti suoi aspetti, patologica. Questa fase - sia detto senza alcun compiacimento - può costituire un momento di ripensamento sulle inerzie, sugli automatismi, sulle disattenzioni dell’epoca in corso, così come sui suoi valori, e, paradossalmente, sullo stare insieme. Un ripensamento nell’ambito del quale il ruolo della cultura non deve essere trascurato.

D’altra parte su molti dei temi ai quali fino a ieri sembrava difficile avvicinarsi, e che oggi emergono con urgenza, l’arte del presente stava già dicendo molto. Basti pensare, per limitarci alla più stretta attualità, ad alcune delle numerosissime mostre, lungamente preparate, che non saranno più visibili: Aria di Tomás Saraceno, a Palazzo Strozzi, a Firenze, che tratta di presente e di futuri possibili, stabilendo connessioni tra il micro e il macro, tra i mondi costruiti da piccoli, antichissimi, bistrattati ma straordinari animali, i ragni, e l’universo con le sue galassie. Con le sue installazioni sospese l’artista evidenzia, tra l’altro, come il sogno rinascimentale del volo si sia trasformato in un incubo per via della sua capacità di inquinare; e asserisce che è possibile immaginare alternative a questo modo di abitare la terra.

Interconnessioni di Antoni Muntadas, a Villa delle Rose, a Bologna, è incentrata su un’analisi critica del sistema linguistico, segnico e visivo. E dal linguaggio occorre sicuramente partire anche nelle riflessioni di questo momento; dalle sue inerzie, dalle disattenzioni, dagli automatismi. Basti pensare alla nonchalance con cui, oggi stesso, si evocano, come rimedi al virus, forme di controllo autoritario; con cui si parla di distanza sociale mentre in molti casi basterebbe dire “distanza fisica”; o al linguaggio bellico di cui si è abusato per trattare questa epidemia. Troppo spesso si ha l’impressione che le parole stesse siano un virus.

O ancora Becoming with and unbecoming with di Elena Mazzi, al Museo del Novecento di Firenze: l’artista cerca di trovare un equilibrio tra il bioritmo dell’uomo e il mondo circostante in nome di una fragilità e di una finitudine che li accomuna; una fragilità che si fa tangibile nel ritrovamento, nei fiordi islandesi, di antiche vertebre di balene, che poi l’artista di volta in volta indossa o innesta su piccoli blocchi di vetro trasparente come acqua. Mentre Elena Cologni, nella mostra Pratiche di Cura prevista alla Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia avrebbe esposto opere sul tema della cura e di un attaccamento ai luoghi che l’artista misura in termini di separazione o di prossimità. Oggi il senso di quella distanza, ribaltato, si fa più che mai cogente.

Ancora, un libro, Condominy, relativo all’omonimo progetto realizzato da Paola Gaggiotti all’interno del reparto di Pediatria oncologica dell’Istituto nazionale dei tumori di Milano. Uscito proprio mentre la pandemia obbligava miliardi di cittadini del mondo a un inedito confino domestico, la pubblicazione utilizza i linguaggi dell’arte relazionale come mezzo per distillare ciò che la collettività dei ragazzi malati di tumore può esprimere sul tema dell’isolamento a cui, per motivi terapeutici, deve sottostare. Così, scrive l’artista, “l’arte sa mettersi al servizio degli altri per diventare voce della comunità in cui si colloca”.

Da queste correlazioni, che si potrebbero moltiplicare ampiamente, risulta chiaro quale capacità l’arte abbia di andare dritto al cuore delle questioni centrali della contemporaneità, per sintetizzarle in una forma sensibile, per metterle in scena facendole così emergere, affinché da lì sia possibile ripartire.

Tornando alla situazione in corso, in un momento cruciale come quello che stiamo vivendo è importante che gli artisti e coloro che li affiancano possano svolgere la propria attività. Da sempre, infatti, sono loro a fornire all’uomo le immagini nelle quali riconoscersi, raccogliersi, ricordare, dolere, indignarsi. E, proprio come grazie alle opere sopravvissute si ha la possibilità di conoscere il passato, è attraverso l’arte di oggi che, domani, potremo comunicare il senso di ciò che stiamo vivendo. Un vuoto oggi sarebbe una perdita per chi si troverà a guardarsi indietro.

Ma va detto: l’argomento non si può esaurire nella teoria. Oltre a essere necessità personale, passione, elaborazione e postura critica, l’arte è lavoro serio e rigoroso. E il sistema all’interno del quale vive è già troppo fragile, soprattutto in Italia. Ora questa condizione di vulnerabilità si è aggravata. È vitale che l’intero sistema culturale, a partire dalle figure più indipendenti e dalle situazioni meno strutturate, riceva non già dichiarazioni teoriche, ma concreta attenzione. Il rischio è di perdere simboli ed energie necessarie per il rilancio, e di impoverire il Paese di un’importante risorsa.

Nulla a che fare con il mecenatismo. Si tratta di essere coscienti del valore intrinseco della cultura e di comprendere il rischio che può comportare ridurre l’arte a commodity scindendo la figura degli artisti dal loro ruolo nella società. E non si pensi neanche a un intervento assistenziale. Si tratta invece di restituire all’arte ruolo attivo all’interno di questa specifica situazione. Le modalità vanno concepite sulla base di serie e precise competenze, e definite con la collaborazione dei protagonisti stessi del mondo dell’arte. Affinché nel Paese la cultura sia veramente risorsa e vanto.