Questa crisi ha evidenziato alcuni aspetti relativi alla scienza e alla sua comunicazione che andranno affrontati. La scienza si basa più sul dubbio che su verità assolute, tuttavia Edgar Morin ci ricorda che questo non è ovvio per il pubblico:

Ce qui me frappe, c’est qu’une grande partie du public considérait la science comme le répertoire des vérités absolues, des affirmations irréfutables [...] Très rapidement, on s’est rendu compte que ces scientifiques défendaient des points de vue très différents, parfois contradictoires […] Toutes ces controverses introduisent le doute dans l’esprit des citoyens (E. Morin, "Cnrs Le Journal", 2020).

Considereremo qui alcuni concetti relativi alla scienza nel contesto di questa incertezza: evidence-based medicine, principio di precauzione, consenso scientifico, comunicazione scientifica ed etica.

Evidence-based medicine. Dagli anni Ottanta, pratica medica e politica sanitaria si basano sulla filosofia dell’evidence-based medicine (Ebm) per cui le decisioni devono essere informate da evidenze scientifiche ottenute, per esempio, da studi clinici controllati. Questo implica il concetto, se non di verità assoluta, almeno di solidità delle evidenze. Un altro concetto chiave è quello del consenso scientifico, che risulta nella definizione di linee guida per la prevenzione e la terapia.

Questi due concetti si sono rivelati insufficienti a prendere decisioni di politica sanitaria, in parte perché il virus era sconosciuto e in parte per l’incompletezza dei dati. Ciò si è visto in particolare in Gran Bretagna, che ha una grande tradizione in termini di adozione dell’Ebm, con il Cochrane centre e il National Institute for Health and Care Excellence e le sue linee guida. Quando hanno dovuto affrontare l’emergenza, le autorità sanitarie dovevano basarsi su modelli di infezione. Poiché questi cambiavano in continuazione ed erano fondati su dati imprecisi, il governo è rimasto paralizzato passando nell’arco di pochi giorni dal laissez faire (e la sfortunata espressione di immunità di gregge) al confinamento (anche se non stretto come la più “virtuosa” Italia). Va notato che, in questo contesto, non prendere decisioni equivale, di fatto, a scegliere una strada precisa.

La mancanza di farmaci specifici e l’urgenza, uniti al problema di comunicazione di cui parlerò dopo, ha reso l’opinione pubblica e i politici suscettibili a facili entusiasmi sui possibili farmaci. Un esempio è quello dell’idrossiclorochina, promossa da un medico di Marsiglia e di cui si è invaghito perfino Trump. Noi tutti speriamo che funzioni, ma attualmente viene utilizzata in assenza di evidenze scientifiche. Su questo l’Italia è particolarmente a rischio di pressioni da parte dell’opinione pubblica e di interferenze politiche, vedi i casi Di Bella e Stamina. Entusiasmo e urgenza ci fanno dimenticare che un farmaco di cui non si sia dimostrata l’efficacia può fare sia del bene sia del male. I farmaci hanno di solito molteplici meccanismi d’azione e il cimitero delle aziende farmaceutiche è pieno di molecole che, per quel che si sapeva, “avrebbero dovuto funzionare” (per il razionale alla base del loro meccanismo) ma si sono poi mostrate inefficaci o dannose.

Che cosa fare in presenza di dati incompleti? Se un medico ha notato che i suoi pazienti stanno meglio se si dà loro il farmaco x, possiamo introdurlo nella pratica clinica senza prima avere solide evidenze di efficacia a sicurezza? Finora l’applicabilità di un farmaco era determinata dal rapporto beneficio/richio (vedi Ebm) e, con l’austerity, dal rapporto costo/beneficio. Dovremo aggiungere un terzo fattore che è quello dell’urgenza, da affrontare con meccanismi di fast-tracking che però non sacrifichino la necessità di dimostrarne efficacia e sicurezza, resistendo alla spinta della pubblica opinione o di un politico. Un precedente potrebbe essere rappresentato da Ebola e dalle linee guida dell'Oms sull’uso compassionevole di farmaci non approvati e al di fuori di studio di sperimentazione clinica.

Possiamo solo immaginare l’interesse economico di molti a ritornare a un sistema in cui l’approvazione di farmaci sia meno rigorosa; molti di noi ricordano l’epoca d’oro (non per il paziente) in cui le mutue rimborsavano “ricostituenti” e complessi multivitaminici.

Principio di precauzione. Il principio di precauzione implica azioni a prevenire un rischio incerto per la salute "senza bisogno di attendere una prova scientifica certa circa la sussistenza e l’entità del rischio in causa". Qui però il rischio non era incerto, vista la situazione in Cina, e l'incertezza riguardava semmai, in assenza di evidenze scientifiche solide, l'efficacia di una serie di misure (isolamento, chiusura di attività) o devices (mascherina). Difficile definire una specie di “principio di precauzione al contrario”, che preveda l'applicazione di misure precauzionali per cui non esistono evidenze scientifiche solide a un rischio certo (anche se non ben quantificato). Può apparire sensato che, in presenza di una patologia trasmissibile, si debbano estendere a tutta la popolazione misure igieniche di efficacia certa (lavarsi le mani) o meno certa (mascherine), o misure sociali come l’isolamento. Purtroppo, come nel caso di farmaci, alcune di queste misure possono avere conseguenze negative non solo sull’economia, ma anche sulla salute (malattie mentali, suicidio, malnutrizione da povertà).

Consenso scientifico. Epidemiologi, virologi e immunologi hanno presentato modelli e indicazioni diversi, una mancanza di consenso inusuale nella scienza moderna. Infatti, nonostante l'immagine romantica di scienziati che seguono diverse scuole di pensiero e testano popperianamente le loro ipotesi per smentirle, in realtà la scienza biomedica è spesso una scienza del gregge. Per lo più lavoriamo girando attorno alle aree di ricerca in voga (che non sempre meritano la definizione di teoria scientifica) con la stessa creatività di un bambino alle prese con un album da colorare, perché questa è la via più facile per per pubblicare su riviste buone e ottenere una posizione in un gruppo di ricerca importante. Verrebbe da pensare che la mancanza di consenso stimoli un acceso e sano dibattito, ma questo è reso difficile dall’urgenza e di fattori esterni alla scienza discussi qui sotto.

Comunicazione scientifica. Storicamente, il dibattito avveniva tra specialisti, attraverso peer review, pubblicazioni e conferenze, ma la comunicazione della ricerca ha cambiato tutto. Ormai ogni pubblicazione o presentazione a congresso è preceduta da comunicati stampa istituzionali, soprattutto per lusingare i finanziatori. Così il messaggio cambia a ogni passaggio come nel gioco del “telefono senza fili”: ricercatore>ufficio stampa>giornalista>pubblico.

Internet ha cambiato tutto, per due fattori: l'open access, che rende le pubblicazioni accessibili a tutti, e i preprint servers, che postano i manoscritti prima della peer review. Non parliamo poi di social media e salotti televisivi che mal si prestano a qualsiasi cosa che implichi dubbio e incertezza, e che hanno aggiunto politici e influencers al ciclo della comunicazione scientifica. Questo ha provocato un cortocircuito del sistema. Alcuni scienziati hanno affrontato il problema enunciato da Morin con un denial, ostentando certezza sull'approccio da loro abbracciato/promosso, insultando ricercatori che avevano ipotesi diverse e riservando disprezzo e schadenfreude verso i Paesi stranieri dove le autorità sanitarie decidevano un approccio diverso. Il dibattito scientifico si è spostato sui quotidiani, o su Twitter e Facebook, e sarebbe interessante analizzare le comunicazioni dei nostri scienziati e classificarle in tipologie, come fece Propp con la morfologia della fiaba.

Mentre tutta l’attenzione su informazione e Covid è focalizzata sulle strampalate “fake news”, credo occorra sviluppare un codice di condotta per la filiera dell’informazione scientifica sopra descritta. Per esempio, i preprint dovrebbero recare su ogni pagina la dicitura “preliminare”. Le riviste scientifiche dovrebbero richiedere un “sommario per il pubblico generale” che sottolinei i limiti delle conclusioni dello studio e della loro estrapolabilità al paziente, soprattutto quando si alluda a possibili terapie. Insomma, delle “avvertenze al lettore” che dicano esplicitamente che studi clinici controllati saranno necessari per valutare l’eventuale trasferibilità dei risultati al paziente.

Etica. Molti degli aspetti analizzati possono essere visti come aspetti “etici” (etica dell’informazione, della ricerca ecc). Questo mi ricorda di menzionare un ultimo punto. In assenza di evidenze robuste e di un consenso, le varie autorità sanitarie nazionali stanno decidendo politiche sanitarie su basi incerte. In un certo modo sperimentano, come in Gran Bretagna dove in un primo tempo si era pensato di lasciar fare (a parte le misure, economicamente neutrali, di lavarsi le mani e coprirsi la bocca quando si starnutisce), contando sull’immunità di gregge. Ora, se un ospedale universitario vuole sperimentare un nuovo farmaco deve prima scrivere un protocollo di ricerca. Questo deve poi essere approvato da un comitato etico che include statistici e medici ma anche rappresentanti dei pazienti. I governi non dovrebbero esserne esenti e sarebbe interessante ipotizzare quale sarebbe stata l’opinione di un comitato etico a una proposta di lasciar sviluppare naturalmente un’immunità di gregge.

In conclusione, dovremo sviluppare la nostra attenzione agli aspetti etici dell’emergenza, della comunicazione scientifica e della politica sanitaria. Questo non richiederebbe necessariamente un ennesimo comitato ma potrebbe essere presa in carico da ordini professionali e comitati etici esistenti.