Il mondo dell’università – studenti, docenti, personale tecnico e amministrativo – ha compiuto uno sforzo davvero imponente in questi ormai quasi due mesi di sostanziale chiusura dei suoi spazi fisici per far sì che le sue attività potessero continuare, anche se con diverse modalità. Improvvisamente ci siamo trovati tutti proiettati in un universo pressoché esclusivamente virtuale, interagendo tra noi in quelle attività che eravamo abituati a svolgere di persona su piattaforme che in pochissimo tempo abbiamo imparato a utilizzare. Probabilmente, in un futuro non più funestato dall’incombente presenza del coronavirus, potremo fare tesoro di questo apprendimento accelerato e forzato, delle nuove sperimentazioni necessitate dalla drammatica contingenza della pandemia. Ma ora apprendimento e sperimentazione sono un urgente bisogno quotidiano, in attesa di riprendere una normalità che certamente si porterà appresso il senso e la pratica di questa lunga parentesi. Il Paese oscilla in questo momento tra una fase 1 che ancora non si è chiusa e una fase 2 dai contorni indefiniti. Dovrebbe poi aprirsi una fase 3, che intravediamo dopo l’estate, ma che – come quella che dovrà precederla – rimane appesa all’andamento della pandemia. Intanto ci si interroga già sul percorso che l’accompagnerà.

Così è anche per l’università. In queste ultime due settimane alcune indicazioni sono provenute dal ministro dell’Università e della Ricerca scientifica Gaetano Manfredi. Nel documento inviato al Cun e alla Conferenza dei rettori (rintracciabile sul sito della Federazione lavoratori della conoscenza Cgil), all’interno di uno schema flessibile ove i singoli atenei possono trovare loro specifiche soluzioni, il cuore della proposta è rappresentato dall’avvio di una didattica «mista». La quale si dovrebbe sostanziare, da un lato, in lezioni in presenza, ma per un limitato numero di studenti in condizioni di sicurezza, dall’altro, in attività in remoto, in «modalità sincrona e/o asincrona». Non è facile immaginare l’organizzazione logistica di una tale didattica e in particolare della selezione degli studenti che possono presenziare e di quelli che devono invece seguire da casa, online. Ma soprattutto – e su questo sarebbe davvero utile un serio confronto – lascia qualche perplessità l’ipotesi della modalità mista «sincrona». Tenendo peraltro presente che quella «asincrona» richiederebbe un impegno in termini di ore doppio per i docenti, a meno che non si pensi di limitarsi a registrare le lezioni fatte in classe rendendole disponibili agli studenti non presenti, trasformati così in semplici spettatori della lezione, costruita non per loro, ma secondo le modalità tradizionali di una lezione in presenza.

Ma torniamo alla modalità «sincrona». Parrebbe di capire che si tratti di una soluzione secondo la quale gli studenti non presenti in classe possano seguire la lezione da remoto. Tecnicamente nulla di più facile. Ma che lezione sarebbe? Il modo con il quale chi insegna si pone di fronte ad una classe in carne e ossa si trasforma quando l’interazione è mediata da una piattaforma elettronica. Il linguaggio del corpo, i tempi, il ritmo, il tipo di attenzione che caratterizzano l’interazione – perché sì, l’attività dell’insegnare è un'attività interattiva, di scambio di sguardi, di cenni, di percezioni, di parole – non sono gli stessi nelle due diverse situazioni. Il docente, costretto nella sua imprescindibile singolarità, corporea e mentale – in attesa di professori bionici – può adattarsi all’una o all’altra modalità, non a entrambe.

Ancora più prosaicamente, proviamo a immaginarlo con un occhio sugli studenti di fronte a lui, attento alle loro reazioni e al loro desiderio di intervenire, e un altro sulla chat dell’applicazione per vedere se qualche studente remoto ha domande o osservazioni da fare. O staccare l’attenzione dalla classe reale per rivolgersi a chi sta nella classe virtuale – che il docente non può vedere o, nel caso di pochi studenti, può intravedere in piccoli riquadri – per comprendere se tutti sono in grado di seguire. Lo stesso disegno della lezione – possedendo i due diversi contesti diverse potenzialità – tende a differire: trovare una via di mezzo rischia di risolversi in un deludente ircocervo. L’e-learning conosce ormai un’ampia applicazione nel mondo universitario, nel nostro come in altri Paesi. Esistono interessanti esperienze e sperimentazioni e tra queste certamente anche forme miste, sia con lezioni in presenza sia con coinvolgimento attraverso il digitale. Però – per quanto mi è dato sapere, e certamente potrò essere smentita da chi ha maggiori competenze nel settore con esempi di soluzioni altamente tecnologiche che tuttavia dubito siano già ora alla portata della maggioranza dei nostri atenei (di questo si era discusso in uno scambio social con colleghi) – quelle forme prevedono un’alternanza delle diverse modalità, adottate in momenti diversi per lo stesso gruppo di studenti. Non la contemporaneità.

In un’intervista radiofonica del 9 aprile il ministro Manfredi ha così motivato la scelta «mista»: «Da un lato per garantire delle condizioni di sicurezza, così da ridurre l’accesso,  fare in modo che ci sia distanziamento anche nelle aule, dall’altro per consentire la continuità formativa anche ai pendolari di lunga percorrenza [nel documento indicati come coloro che in particolare usufruirebbero dell’insegnamento a distanza], ad esempio agli studenti stranieri; ora abbiamo la grande sfida di non perdere la platea degli studenti stranieri che si iscrivono alle nostre università […] un grande esperimento di una università che non perde la sua natura di essere una università in presenza con la ricchezza del confronto, della discussione, dell’incontro, ma anche con la capacità di essere più inclusiva utilizzando le nuove tecnologie.»

Sono davvero motivazioni convincenti? Innanzitutto osserviamo che la continuità formativa può essere garantita a qualunque studente anche mantenendo per il prossimo semestre la sola didattica in remoto. Per quanto riguarda la sicurezza, naturalmente dipenderà dal grado di diffusione del virus alla fine della prossima estate. Ma se le circostanze saranno tali da richiedere comunque il mantenimento di condizioni di sicurezza per evitare nuovi contagi, sarà sufficiente limitare il numero di studenti nelle aule? Sulla distanza necessaria tra le persone gli studi finora noti non danno risposte univoche, ma fanno pensare che sarà necessario molto più del metro del quale si è parlato nei primi tempi della pandemia. E i corridoi, i cortili, i giardini e - mi si perdoni la prosaicità - i bagni comuni? Quali strutture potranno davvero garantire che in quegli spazi e luoghi siano rispettate ampie misure di sicurezza e di igiene?

Inoltre, docenti e studenti non vivono in una bolla. Anche se in numero minore, anche se non su lunghi percorsi, si sposteranno sui mezzi pubblici, bus, treni, pullman per raggiungere le loro sedi, andando ad aggiungersi a quei lavoratori che non hanno scelta e devono obbligatoriamente spostarsi perché non è loro concesso lo smart working. E quotidianamente, nei weekend o per le vacanze torneranno dalle loro famiglie. È davvero necessario aumentare sul nostro territorio le occasioni di spostamento e di concentrazione delle persone, più in generale di contagio, in una situazione che ancora in settembre potrebbe essere di grande incertezza (sulla circolazione del virus, ma anche sulla natura del virus stesso, sulla sua pericolosità, sulla possibilità o meno di immunizzarsi, sui danni permanenti che chi si ammala può subire)?

Qual è la soglia di incertezza al di sotto della quale ci si potrà assumere una tale responsabilità? E poi, perché? L’università ha dimostrato di poter garantire comunque la sua offerta formativa anche in remoto, di essere «inclusiva», secondo le parole del ministro. Con alle spalle una storia plurisecolare forse non ha bisogno di dimostrare la sua natura di luogo di scambio e di confronto (che peraltro continuano online con intensità) nei pochi mesi del primo semestre 2020-2021. «La ricchezza del confronto, della discussione, dell’incontro», richiamata dal ministro dell’Università per giustificare la presenza di un po’ di studenti, fa in realtà apparire la politica della didattica mista come una politica simbolica. Come se dovessimo dimostrare qualcosa, magari che continuiamo a lavorare e non siamo fannulloni. Ma del nostro impegno gli studenti e le loro famiglie sono ben consapevoli. Le grand public, se proprio necessario, seguirà. Intanto credo sia importante che ci preoccupiamo di svolgere al meglio il nostro dovere nelle condizioni date, facendo tesoro del principio di precauzione per non trasformarci a nostra volta in un problema per la comunità nazionale della quale facciamo parte. Mischiando virus e cattiva didattica.