In questa stagione di Che tempo che fa, Roberto Burioni interviene, la prima volta, il 26 gennaio. Il suo ingresso in studio viene preceduto da un breve collegamento alle 20.10 circa con Rainews24, dalla cui redazione il direttore, Antonio Di Bella, comunica i dati parziali dell'affluenza alle regionali dell'Emilia-Romagna. Lo spoglio comincerà solo alle 23 e indicazioni di che cosa accadrà non le ha nessuno – tranne i sondaggi clandestini che tutti hanno e che devono far finta di non conoscere. L'interesse è altissimo. L’impressione condivisa è che da quel risultato dipenderà il destino politico del Paese. Come per tutto il resto, sembra una vita fa.

Il professor Burioni racconta la sua notizia d’attualità che, però, a noi italiani sembra infinitamente meno stringente delle elezioni in Emilia-Romagna: sul suo magazine online, Medical Facts, ha segnalato già dall’8 gennaio che in Cina ci sono casi sospetti di una “strana” polmonite. Avverte di fare attenzione e aggiunge che le malattie infettive suscitano nell’uomo una paura innata, soprattutto quelle senza cure o vaccini.

Eravamo appena all’inizio di tutto. Tranne rari casi, di Wuhan non aveva mai sentito parlare nessuno. E invece, giorno dopo giorno, con la capitale della provincia dello Hubei e i suoi oltre undici milioni di abitanti in quarantena abbiamo cominciato ad avere familiarità. Così come con termini che ora sono entrati nel nostro vocabolario comune. Non ci sorprende più sentire “intubare”: anzi, è stato ripetuto tante volte da farcene dimenticare perfino la brutalità della radice. Addirittura abbiamo preso confidenza con “estubare”, o “stubare”, come dicono altri. E conosciamo le differenze tra ffp2 e ffp3, con valvola o meno; riconosciamo un “gel a base alcolica”; ci siamo abituati a "distanziamento sociale", "ingresso contingentato" e persino all'orribile calco dall’inglese scrinare, cioè “fare uno screening”.

Una trasmissione come Che tempo che fa, che va in onda da oltre quindici anni, ha ovviamente il compito di raccontare, in qualche modo, l’attualità. Aggiornarne il racconto, settimana dopo settimana, con la cronaca, lo spettacolo e la comicità. Ma l’idea stessa di ciò che è “attualità” negli ultimi quindici anni è cambiata moltissimo. E, di conseguenza, è cambiato anche il modo di essere attuali nel raccontarla. Per riferirsi solo agli esempi più semplici: i libri e i film non erano così “schiacciati” sulla data d’uscita, l’immediatezza delle risposte dei social era ancora lontana e i fatti avevano una vita più lunga, i politici preparavano le interviste con una cura ancora novecentesca. Si faceva un’intervista al quotidiano una volta ogni due mesi, centellinando le scelte e studiandole con una cura che, vista oggi, ci appare assurda e, al tempo stesso, da rimpiangere. Internet e i media non spolpavano immediatamente ogni prodotto, né trasformavano in prodotto anche quello che non lo era, le visioni erano condivise da insiemi maggiori di oggi e il pubblico non risultava parcellizzato ed emotivo. Per dirla nel modo più conciso possibile: l’attualità non significava ancora essere schiacciati sul presente come oggi; l’attualità conteneva in sé qualcosa del passato prossimo (addirittura del passato remoto) e lasciava presagire qualcosa del futuro.

Indubbiamente l’emergenza legata al Coronavirus ha schiacciato tutti i racconti televisivi sull’emergenza stessa, al punto che una scritta in alto a destra ricorda ai telespettatori quali programmi sono stati registrati prima che il governo mettesse in atto le misure di contenimento più severe (e, in certi casi, la cosa sortisce un effetto ironico involontario: a me è capitato di osservare la replica di uno sceneggiato Rai anni Settanta con la stessa scritta in sovrimpressione). Per una ragione collegata, l’irruzione nelle nostre vite del Coronavirus ha portato molte persone a dover ammettere che, in questo periodo, fanno fatica a leggere un libro perché troppo schiacciate dal peso del presente. Ma che il presente fosse diventato il principale orizzonte (quantomeno del pubblico televisivo) era una tendenza in atto da tempo. La velocità e il riscontro immediato avevano già da anni cambiato il racconto dell’attualità in tv. Tant’è vero che già da un po’ qualcuno aveva cominciato a considerare i media come i veri “creatori” delle emergenze. Disastri e tragedie che per intensità impallidiscono davanti a questa, ma che comunque hanno segnato le esperienze di tutti, spettatori o meno.

Raccontare l’attualità in questo contesto ha totalmente stravolto l’impostazione del programma. Il primo elemento che è venuto a mancare, per via delle decisioni del governo di limitare gli assembramenti, è stato il pubblico in studio. A chi non si esibisce può sembrare una questione secondaria, ma molto di quello che accade in diretta è legato alla sensibilità immediata di ciò che il pubblico gradisce. E senza un pubblico che assista ci si sente come sordi. In seconda battuta, nuove decisioni governative hanno limitato anche la presenza di ospiti: gli spostamenti sono stati vietati e gli ospiti hanno cominciato a intervenire in collegamento. Come accaduto anche in altre trasmissioni, è stato il boom di Skype, Zoom, collegamenti e videochiamate varie.

Al momento il programma va in onda anche con la squadra tecnica e con le redazione ridotte ai minimi termini. Per fare l’esempio più evidente, anche il professor Burioni, unico ospite ancora in studio nell’ultima puntata, regge un microfono in mano invece di essere microfonato come accadrebbe di solito. I pochi autori o redattori seduti in studio, quattro o cinque in una platea che conterrebbe oltre 300 persone, seguono correttamente le regole di distanziamento sociale e indossano rigorosamente mascherine e guanti. Eppure si può dire che la chiave d’interpretazione dell’attualità di Che tempo che fa sia la stessa di sempre: prediligere la competenza. Può apparire pretenzioso, ma è quello che il programma prova a fare in tempo “di pace”, trattando argomenti seri o faceti, ed è quanto prova a ripetere allo stesso modo quando tratta di un’emergenza sanitaria senza precedenti nelle nostre vite. Vale per lo spettacolo, vale per la letteratura,  vale per la medicina. Parla solo chi può trattare di un argomento, senza lasciare alcuno spazio alle strumentalizzazioni e alle provocazioni.