La scuola è cambiata, dall’oggi al domani. L’emergenza sanitaria è riuscita laddove non sono arrivati i ripetuti tentativi di riforma. Nella corsa dietro l’imperativo di cambiare e innovare, la scuola è stata superata dagli eventi stessi, con tutta la loro tragicità. Con un tempismo sfortunatamente azzeccato, il 28 febbraio scorso andava in onda una puntata di Presa Diretta intitolata in modo profetico “Cambiamo la scuola”. Ed eccoci qua, in un futuro distopico, in cui un immaginario, spietato, ministro dell’Istruzione ha inventato la pandemia per obbligarci a cambiare la scuola, con le buone o con le cattive.

Volevate la scuola digitale? Eccola! Volevate la scuola innovativa? Eccola! Poco importa se ci siamo resi conto, tempo pochissimi giorni, che si stava meglio prima, o, per dirla con un proverbio storpiato, si stava meglio quando si stava meglio. Premetto che non è mia intenzione mettere in luce i difetti e le mancanze della didattica a distanza: non ho la pretesa di fare un bilancio di questo periodo sospeso e non ancora concluso; preferisco invece approfittarne per gettare uno sguardo su ciò che ci siamo lasciati alle spalle.

Si potrebbe provare a fare una sorta di fermo-immagine dell’esatto momento che precede il decreto di chiusura delle scuole e l’avvio repentino e per molti versi brutale della didattica a distanza. Sicuramente non avremmo una sola fotografia, ma diverse, che, osservate ora, avrebbero probabilmente un effetto perturbante. Avremmo fotografie a colori vivaci: i colori della vitalità caotica delle classi di bambini e adolescenti ancora ignari di quel che sarebbe successo a breve; di insegnanti, non meno ignari, che cercano di conciliare l’insegnamento della materia a quello delle basilari norme igieniche, in cui anche il «prof. posso andare in bagno?» può trasformarsi in una lezione sull’importanza di lavarsi le mani.

Ma avremmo anche fotografie in bianco e nero: quelle che mostrano una scuola – immaginatela in un edificio grigio e pericolante – dove il sapone non sempre c’è. Infine avremmo anche le fotografie da inchiesta sull’«emergenza scuola», sul « fallimento del sistema scolastico»: le immagini che, puntando il dito sulle metodologie obsolete e l’incapacità di stare al passo coi tempi, mostrano i dati sull’abbandono scolastico, i risultati degli Invalsi e le classifiche Ocse-Pisa – dati, va detto, spesso “inquadrati” erroneamente o senza una doverosa metalettura. (A tal proposito, ci si augura che questo periodo fatto di consultazioni quotidiane di grafici ci insegni per lo meno un uso più prudente dei dati statistici.)

Che ordine dare a queste fotografie? Partiamo da un punto: se la fotografia è tra le tecniche più realistiche che abbiamo per restituire quanto si mostra davanti ai nostri occhi, è vero anche che essa qualcosa nasconde sempre (primo fra tutti l’occhio del fotografo) o, a volte, deforma. In effetti, nel rivedere ora la fotografia dell’«emergenza scuola», saltano agli occhi alcune criticità, che riguardano soprattutto il modo in cui il fotografo ha costruito il paradosso di questa «emergenza prima dell’emergenza». Una fotografia è un’immagine statica, raramente cioè fa i conti con la dinamica che ha prodotto il momento della cattura: la mancanza di investimenti nel sistema educativo e lo sfruttamento della precarietà lavorativa sono probabilmente le due voragini che si aprono a guardare bene la foto. Sempre per lo stesso motivo, nella fotografia della «scuola da cambiare», non trova spazio il cambiamento già avvenuto. Mi riferisco a quello degli ultimi dieci anni – ma possiamo andare anche più indietro con il tempo – a seguito di due riforme (la riforma Gelmini e, soprattutto, la Buona scuola del 2015) che di cambiamenti ne hanno introdotti eccome: poco visibili forse per chi ne è fuori, o per chi ne ha vissuto solamente il periodo di un ciclo scolastico, macroscopici per chi vi è dentro da più tempo. Affermare che la scuola è rimasta alla riforma Gentile del 1923 è tanto ideologico e ridicolo quanto negare i problemi reali della scuola: è il frutto della tecnica deformante del fotografo che ha fissato nella sua mente il ricordo di come era la scuola «ai suoi tempi», con tutti i suoi difetti e i suoi traumi, e ora vuole ridar vita proprio a quell’immagine lì, senza rendersi conto che la realtà che sta fotografando nel frattempo è diventata qualcosa di ben diverso.

Il punto è che la scuola come era prima era una scuola già diversa da come la immaginiamo noi. Perché la scuola cambia di continuo, mossa da forze che vengono dall’alto ma anche dal basso. Anche dentro di essa ci sono spinte conservatrici, soprattutto in chi vi sta dentro da più tempo, ossia i docenti (ma non solo). Forse per questo nelle foto dell’emergenza fatta di numeri più che di persone, spesso mancano proprio loro, i testimoni del «prima» e del «poi», occultati per dar libero spazio all’innovazione che ha da venire; un’innovazione raccontata piuttosto da neuroscienziati, pedagogisti, formatori e curatori di piattaforme web, datori di lavoro che esprimono le aspettative della scuola del futuro. Ma vale la pena interrogarsi se tali spinte conservatrici siano davvero così potenti da arrestare ogni trasformazione, andare oltre il facile stereotipo del docente ormai un po’ in là con l’età, saldamente ancorato alle metodologie del secolo scorso, per constatare che la maschera del cambiamento e dell’entusiasmo innovativo si sgretola velocemente se questo futuro arriva senza adeguati strumenti e ripensamenti che permettano di “viverlo” effettivamente in tutte le componenti che abitano la scuola.

D’altronde così funzionano spesso le fotografie «dell’emergenza» (ora dovremmo esserne più consapevoli): accelerano il cambiamento senza sapere chi, tra gli elementi nella foto, ne beneficerà davvero, dando rilievo a certi elementi dall’immagine piuttosto che ad altri e occultando chi la trasformazione l’ha già vissuta o non è in grado di adeguarsi ad essa. Viste nel momento in cui l’emergenza è reale, l’emergenza simbolica della scuola come era prima ci lascia ancora più disorientati. Eppure, nel delirio disorganizzativo di ora, se provassimo a ripetere l’esperimento della foto, sono sicura che molti elementi apparirebbero in modo più nitido e distinto, così da mostrare più chiaramente chi sta in primo piano e chi sta sullo sfondo. Basterebbe poi confrontarla con qualche foto «della scuola come era prima»: oltre all’effetto nostalgia, la parte costruttiva dell’esperimento ci permetterebbe di riempire qualche vuoto, raddrizzare qualche immagine deformata e farci ben vedere quegli elementi imprescindibili per quando, una volta finita questa emergenza, ci chiederemo: «E ora che cosa vogliamo davvero cambiare?».