L’emergenza in atto ha portato alla luce in modo drammatico le difficoltà che il sistema di Welfare italiano incontra sia nel proteggere davvero tutti i tipi di lavoratori dalla perdita, o riduzione, del lavoro e relativo reddito, sia nell’elaborare forme di protezione innovative per le nuove figure sociali che si trovano ad affrontare i cosiddetti “nuovi rischi”: lavoratori a termine e occasionali, a partita Iva, pseudo-freelance (ad esempio i rider), colf e badanti. L’emergenza ha per di più fatto vedere, anche a chi fingeva di ignorarlo, come il lavoro nero sia spesso, sebbene non sempre, un lavoro di sussistenza per mancanza di alternative, perso il quale si rimane privi di tutto, anche di protezioni, a meno di non accettare quella della criminalità organizzata.

A fronte di questa situazione il governo ha proceduto dapprima allargando la platea di lavoratori inclusi nei sistemi di protezione esistenti, e introducendone una nuova per alcune categorie (autonomi, partite Iva) che finora ne erano prive, confermando peraltro l’impianto frammentato ed eterogeneo che continua a lasciare fuori alcune categorie di lavoratori pur regolarmente assunti, in primis badanti e colf escluse esplicitamente dalla cassa integrazione. Ma, mentre non tutte le forme di protezione garantiscono un reddito sufficiente a soddisfare i bisogni essenziali, la platea dei drammaticamente impoveriti a seguito della chiusura di gran parte delle attività produttive è più ampia di quella di chi gode di qualche forma di protezione. Il considerevole aumento, anche nella ricca Milano, di famiglie che non riescono neppure più a fare la spesa alimentare è la punta dell’iceberg. Si tratta di una situazione cui non si può fare fronte solo con la distribuzione di pacchi alimentari e buoni spesa ma richiede un sostegno economico continuativo, per quanto auspicabilmente temporaneo.

In questa prospettiva, la collaborazione tra il Forum Disuguaglianze e Diversità (ForumDD) e l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS) nella formulazione della proposta di un Reddito di Cittadinanza per l’Emergenza (Rem) è da accogliere positivamente. Bene anche che il Pd intenda sostenerla in seno al governo. Con l’uscita dei più accaniti sostenitori di logori stereotipi, il Pd sembra aver accantonato del tutto la stagione della caccia agli “sdraiati sul divano” e dei “vacanzieri del Reddito di cittadinanza”.

Tuttavia è bene fare chiarezza su alcuni aspetti tecnici che hanno anche importanti implicazioni politiche. Il reddito di cittadinanza, avviato solo un anno fa, insieme alla Pensione di cittadinanza riservata a chi è più avanti con l’età, ha rappresentato una innovazione nel nostro sistema di contrasto alla povertà perché ha introdotto una misura non solo strutturale e universalistica di sostegno al reddito per chi si trova in povertà, come era già il ReI, ma di importo dignitoso. Strutturale significa che non ha carattere “sperimentale” come fu a suo tempo il Reddito minimo di inserimento, peraltro limitato ad alcune aree del Paese. Universalistico significa che non riguarda solo determinate categorie di soggetti, ad esempio bambini e anziani (social card), famiglie con il terzo figlio ecc. Altra cosa è la selettività, cioè il fatto che per accedere al Rdc occorre possedere determinati requisiti di reddito e patrimoniali (questi ultimi piuttosto stringenti) e risiedere in Italia da più di dieci anni (norma che fu introdotta per escludere gli immigrati anche regolari in ossequio al Welfare chauvinism della Lega). Altra cosa ancora è la condizionalità, la subordinazione del beneficio alla disponibilità a tenere determinati comportamenti o effettuare forme di “controprestazioni”.

L’introduzione del Rem va in direzione di una estensione della platea degli attuali beneficiari del RdC perché ne allenta i criteri di selettività e di condizionalità. Ciò può trovare attuazione in due modi. Una prima strada consiste nell’inglobare la proposta nel quadro di una revisione del RdC basata su un allentamento per tutti dei criteri di accesso e delle condizionalità oggi in atto, dal momento che persone che si sono trovate povere dalla sera alla mattina potrebbero avere difficoltà a rispondere ai requisiti previsti. Ciò comporterebbe il vantaggio di evitare la creazione di due diverse categorie di poveri - quelli che lo erano due mesi fa e quelli che lo sono diventati ora. Si correrebbe tuttavia il rischio di allungare i tempi e sovraccaricare il Rdc prima ancora di poter fare un bilancio del suo primo anno di attività.  Una seconda strada percorribile, suggerita dalla proposta di ForumDD e ASviS, è quella di tenere separati RdC e Rem, rimandando a un secondo momento una confluenza tra i due provvedimenti. Questa strategia avrebbe il merito di poter adottare da subito uno strumento più agile di protezione, anche se avrebbe come limite, appunto di utilizzare due pesi e due misure per “vecchi” e “nuovi” poveri. Qualunque sia la strada che il governo intenderà prendere sarà importante evitare di lasciare fuori, ancora una volta, qualcuno, sulla base di criteri moralistici (i lavoratori in nero che hanno perso i mezzi di sussistenza come “non meritevoli”) o etnico-nazionali (i migranti che non hanno gli stringenti requisiti oggi in vigore per il RdC, i migranti minorenni con permesso umanitario cui hanno chiuso il tirocinio e così via). Sarà anche importante stare attenti a non cristallizzare, dal punto di vista delle policy, una nuova categoria di poveri. Se la crisi ci sta insegnando qualche cosa, è che occorre superare il categorialismo e la frammentazione spinti tipici del sistema di welfare italiano, con le sue inefficienze ed iniquità.

Resta infine aperta la questione del sostegno alle famiglie, alle quali si guarda esclusivamente come ambito di consumo e non anche come ambito in cui si definisce l’offerta di lavoro. Alla ripresa delle attività economiche, con scuole e servizi chiusi, i genitori di figli minorenni andranno incontro a notevoli difficoltà in un Paese nel quale la conciliazione del lavoro con la cura, per ampia parte non coperta dai servizi educativi e dalla scuola,  è stata a lungo affidata alla generazione più colpita dal Covid-19 e alle donne - lavoratrici o “casalinghe” -  delle età centrali, oggi lacerate tra la cura dei piccoli e la protezione degli anziani.