Il 2019 è stato un anno felicemente machiavelliano. Nonostante non ci fossero anniversari tondi da celebrare, la riflessione sulla vita e le opere di Niccolò Machiavelli è tornata a occupare il confronto intellettuale e spazi di dibattito pubblico.Il fatto che il 2019 abbia coccolato, nell’abbraccio dei suoi dodici mesi, una nuova centralità del nostro Segretario, può voler dire anzitutto due cose. Segnala la circostanza di tornare a rileggere i suoi libri, alla ricerca di mappe concettuali che possano suggerire direzioni possibili, laddove i minuziosi navigatori satellitari balbettano. In fondo ci emoziona somigliare a lui, quando in Sant’Andrea in Percussina, a fine giornata, si chiudeva nello studiolo della casa di campagna a interrogare i suoi autori preferiti, “e quelli per loro humanità” gli rispondevano (dio solo sa quanto, oggi, Machiavelli ci risponda). Eppure, tornare a lui è anche il segno che la crisi italiana sta vivendo l’ennesimo inverno del proprio atavico scontento: forse perché è un inverno che torna, dopo qualche decennio, a gelare tutta Europa – ma su questo torneremo in seguito.

Proviamo allora a procedere con un po’ di ordine. Lo scorso anno lo studio sulla vita e sull’opera di Niccolò Machiavelli è stato animato da libri interessanti, tra cui brillano però tre volumi a dir poco eccellenti: Nondimanco. Machiavelli, Pascal di Carlo Ginzburg, Machiavelli e l’Italia. Resoconto di una disfatta di Alberto Asor Rosa, Niccolò Machiavelli. Ragione e pazzia di Michele Ciliberto. Tre volumi sorprendenti, non solo per i contributi singolarmente offerti, ma anche per i vari, e nient’affatto casuali, punti di contatto che permettono ai tre intellettuali di dialogare tra loro.

Tornare a Machiavelli è certo più agevole sia in ambito accademico, sia presso la pubblicistica più avvertita, giacché quella che Mario Praz chiamava “la leggenda nera di Machiavelli” (in Machiavelli e gli inglesi dell’epoca elisabettiana, edito da Vallecchi nel 1930) è ormai piuttosto annebbiata, o comunque contrastata da un’interpretazione più autentica della sua opera, in Italia come nei Paesi di lingua inglese. Lo nota proprio Ginzburg, all’inizio del suo lavoro, riprendendo gli studi di Gisela Bock, Quentin Skinner e Maurizio Viroli: “Machiavelli è diventato il modello del cittadino virtuoso, che alle democrazie odierne indica l’importanza dei valori repubblicani: la libertà e la capacità di sacrificarsi per il bene comune”.

Proprio in virtù di questa più solida lettura, il politico Machiavelli e l’intellettuale Machiavelli o, meglio, l’uomo Machiavelli nella sua affascinante e problematica unità, oggi ci parla. E questa unità è il primo e forse principale tratto che affratella gli studi di Ginzburg, Asor Rosa e Ciliberto. Quando per anni in passato per ragioni differenti si è insistito molto a dividere l’opera sua, per esempio a separare nettamente il Principe dai Discorsi. In Ginzburg, Asor Rosa e Ciliberto, Machiavelli torna uno solo. Così Asor Rosa, nelle ultime pagine del suo libro: “Machiavelli è uno solo… intreccio tra realismo e utopia… senso vitale dell’esistenza, fatta di alto e di basso, di pensiero e di corpo, di piacere e di dolore, di ascesa e di sconfitta; l’alternanza anch’essa perfettamente umana di comico e di tragico, di serio e di ironico”.

Se Machiavelli è uno, unitario seppur flessuoso è il suo metodo di lavoro, ed è l’altra caratteristica riconosciuta dai tre autori segnalati. Vivendo in un tempo metamorfico, di fronte a una realtà europea in drammatica trasformazione, il Segretario si dota di un metodo di lavoro intellettuale e politico capace di adattarsi al primato della metamorfosi. Per dirla con le parole di Machiavelli ai suoi capi della magistratura dei Dieci, nel report del 9 settembre 1506: “Bisogna stare ora ad vedere quello che el tempo porti e consigliarsi con quello”.

Il processo di formazione degli Stati nazionali europei preme, tra Quattrocento e Cinquecento, sui confini frammentati e indifesi di un’Italia che, mentre tutto cambia, pretende tuttavia di conservarsi immutata, preservando cioè la propria divisione interna, dunque la propria drammatica debolezza. Il Segretario fiorentino intuisce pienamente questo paradosso. Per poterlo analizzare a fondo dota la sua prosa di una potenza sintattica mai vista. È Ginzburg a spiegarcelo: “La riflessione politica di Machiavelli verte tanto sull’eccezione quanto sulla regola: ma soprattutto verte sulla tensione tra questi due poli, espressa di solito dalle parole nondimeno e nondimanco”. L’utilizzo vorticoso di periodi concessivi e controconcessivi lo sostengono nel tentativo di tenere insieme regole ed eccezioni. Ma non allo scopo (banale) di verificare come l’eccezione confermi la regola, quanto al fine di mostrare, quindi machiavellianamente dimostrare, come regole ed eccezioni coesistano in autonomia. E quanto la tensione, che tra loro sussiste, muova gli eventi con una sua propria spinta.

 

[L'articolo completo, pubblicato sul "Mulino" n. 1/20, pp. 127-132, è acquistabile qui