Il primo treno della mattina lascia Vignola poco dopo le sei. Lungo il tragitto si ferma sedici volte e raccoglie via via chi pendola sul capoluogo, a cominciare dagli studenti e da chi a Bologna lavora. C’è una corsa ogni ora, più qualcun’altra a inizio giornata. Idem al ritorno, quando l’ultimo treno se ne va dalla Stazione centrale alle venti e diciotto. Per i ritardatari, un bus parte un’ora dopo, ma è l’ultima possibilità per tornare a casa. È sempre pieno, per lo più di immigrati che rientrano dopo una giornata di lavoro: dall’edilizia e dai servizi, badanti, infermiere; e venditori con il saccone ancora pieno di mercanzia. Un treno analogo copre l’asse che ripercorre quello della ottocentesca ferrovia Bologna-Portomaggiore verso la provincia di Ferrara: attraversa Budrio, il paesone della bassa immersa nella nebbia che cerca di togliersi di dosso la cronaca nera di Igor e il ricordo della recente alluvione. Poi c’è la Porrettana, vecchia di oltre un secolo e mezzo, che corre lungo un percorso di grande bellezza sino a Pistoia attraversando Porretta Terme. I piccoli convogli, gestiti da Trenitalia, sono più scalcagnati, e non è raro che vengano soppressi all’ultimo istante. Così tocca aspettare anche un’ora prima che arrivi il successivo. La maggior parte delle corse la domenica non c’è, tanto dei treni quanto dei bus, e per gli adolescenti che vogliono farsi un giro in città o nei centri commerciali della cintura spesso l’unica alternativa è farsi accompagnare in auto dai genitori.

Ancora più faticosa è la quotidianità di chi vive più lontano, soprattutto in montagna (oltre la metà della regione è montagna o collina), dove alle difficoltà di trasporto si sommano quelle della mancata manutenzione, del territorio, della rete elettrica e degli acquedotti: nel 2016 in Appennino è bastata una forte nevicata per interrompere per più giorni la fornitura di energia elettrica e dell'acqua. Infine il collegamento a Internet, in molte aree del tutto assente o lentissimo.

Chi studia i fenomeni urbani ha mano a mano riveduto il concetto di periferia, sino a trasformarlo in un contenitore molto elastico che permette di contenere sia le aree esterne dei grandi centri urbani, sia altri territori distanti dal cuore economico. Si può parlare di un dentro e di un fuori, semplicemente. E lo si può fare sia per osservare le dinamiche demografiche sia quelle socio-economiche, così come tutte le aree di sovrapposizione e tensione tra le une e le altre. Il fuori è in sofferenza da tempo, soprattutto nei luoghi che non fanno parte dell’area urbana, dove le periferie intese in senso più tradizionale in alcuni casi sono state ricucite e riavvicinate, nonostante i danni dello sprawl urbano e le forti diseguaglianze sociali che ancora dividono. Non c’è nulla di nuovo, nello svuotamento progressivo di territori: la perdita di possibilità di lavoro, la carenza nei servizi, il timore delle famiglie con figli di relegarsi troppo distanti da dove la socialità consente le sovrapposizioni delle classi e dei caratteri urbani.

Sono, questi, tutti fenomeni in atto da tempo anche nella regione dei primati, come nelle settimane di campagna elettorale è stata raccontata; fenomeni che hanno preso maggiore evidenza dopo la crisi del 2008 ma già in atto in precedenza. I prezzi decisamente bassi delle abitazioni (tante ex seconde case) hanno indotto qualcuno ad allontanarsi anche di parecchi chilometri. Ma negli anni si sono creati paesi dormitorio, privi di socialità autonoma. La montagna non è stata abbandonata solo dagli uomini: anche chi dovrebbe garantire la possibilità di accesso a tutti i servizi fondamentali ha via via allentato la propria presenza. Come scrive Filippo Barbera, “le città metropolitane sono state costruite sui cadaveri delle province”. Ma se la parola “provincia” richiede e permette l’inclusione di piccoli paesi, colline, aree rurali, montagne e borghi, per “città metropolitana” non è così. L’abbandono di questi territori significa anche la fine della sua cura da parte di chi ci lavora: l’agricoltore di montagna è un mestiere eroico, quasi impossibile senza un aiuto concreto, nelle semplificazioni burocratiche o per trasformare la tua azienda dal tradizionale al biologico.

Ma veniamo al voto di ieri.

La campagna di queste regionali è arrivata dopo che l’Emilia-Romagna aveva cambiato i propri connotati politici. Considerando le aree elettorali delle mappe disegnate dall’Istituto Cattaneo, il rosso ha dominato sino alle regionali del 2005 (ovunque, con l’eccezione del piacentino, di un’area occidentale e di piccole zone dell’Appennino), poi le carte hanno mutato la propria colorazione, con vari alti e bassi, sino alle elezioni regionali del 2015 (quelle che segnarono l’affluenza più bassa, dove il Pd era ancora primo partito). E poi, attraverso le politiche del 2018 (primo partito il M5S), alle europee del maggio scorso, quando per la prima volta primo partito è la Lega di Matteo Salvini. In soli due anni (2018-2019) la geografia elettorale della ex regione rossa è letteralmente sconvolta.

Lo stesso giorno delle europee 2019, il Pd aveva perduto anche città come Ferrara e Forlì, e il rosso (o il rosso sbiadito) aveva sin qui resistito più che altro intorno alle aree urbane lungo la via Emilia da Reggio a Ravenna, con un centrodestra sempre più forte nelle aree interne, soprattutto nei comuni dove si vota a un solo turno, con meno di 15 mila abitanti.

Il centrodestra, come si vede, aveva intaccato la ex regione rossa ormai da tempo, parallelamente alla perdita di contatto con i territori da parte del Partito democratico; tanto che nessuna elezione si è mai potuta dare per scontata (incluso il voto di ieri, quando i due candidati erano dati sino all’ultimo punto a punto), né si potrà dare per scontata d’ora in avanti. Questo varrà anche per il capoluogo, dove, dopo il doppio mandato di Merola, si andrà a votare tra due anni. Sino a ieri, quando il Pd è riuscito a conservare i governi municipali, spesso lo ha fatto sotto le mutate spoglie di liste civiche allargate o con l’appoggio in coalizione di tali liste e di partiti minori. Guardandosi le spalle per non perdere così tanto da perdere del tutto, più che guardando avanti.

Bonaccini ha impostato questa sua (interamente sua) campagna elettorale con grande decisione, smarcandosi dal partito, ben sapendo che l’avversario da battere sarebbe stato Matteo Salvini e non la sua diretta concorrente alla presidenza. E si è trovato di fronte un meccanismo ben oliato dalla demagogia populistica che è apparso subito molto difficile da contenere, per di più con due punti e mezzo da recuperare sulla Lega, rispetto alla tornata elettorale di maggio. Ma dietro di sé ha avuto un partito che rischiava (e rischia tuttora, se non cambierà passo) di diventare ogni giorno di più un aggregato di potentati locali e che non appariva in grado di ridefinire il proprio ruolo. E che dunque poteva diventare più un peso che un sostegno.

La Lega, nonostante la sconfitta, ha dimostrato di essere una vera e propria macchina da guerra, confermando nel suo capo la capacità di battere il territorio palmo a palmo, sia nelle zone dove già è maggioranza, come la montagna, sia dove governa il centrosinistra. Salvini si è mosso cercando di non tralasciare nulla e lo ha fatto, come si è visto, non di rado in spregio alle regole del gioco democratico, violandole spesso e volentieri, sicuro che in termini di consensi non avrebbe pagato pegno. Nel frattempo, la sua candidata, senza alcuna credibilità rispetto allo sfidante, è stata tenuta nelle retrovie, affiancando il capo con molti sorrisi ma poche e scarne parole in alcuni comizi, ma soprattutto tenendo incontri e cene nel solco della tradizione, concedendosi a un elettorato che non aveva alcun bisogno di essere convinto. Ma senza alcuna capacità di catturare nuovi voti.

Ai giornalisti che da fuori sono venuti in Emilia-Romagna per capire perché gli elettori avrebbero mai dovuto premiare l’opposizione rispetto a chi aveva tutto sommato governato bene, chi sosteneva di voler votare Salvini (a volte ignorando il nome della sua candidata) rispondeva: “è ora di cambiare”. A parte le orrende strumentalizzazioni su Bibbiano che hanno mostrato uno scadimento senza più limiti della politica del leader, a parte le scenette ai citofoni e la loro spregevole violenza, a parte la bestia salviniana, è alle motivazioni delle persone che bisognerebbe tornare a guardare; a coloro che, nonostante il risultato finale favorevole a Bonaccini, ancora non riconoscono nel centrosinistra delle urne la qualità delle politiche messe in atto dal centrosinistra al governo. E restano tanti. La destra in regione raccoglie ancora complessivamente circa il 40% dei consensi, il Pd è tornato a essere primo partito sulla Lega solo per una manciata di voti.

Ieri non è risorto il Partito democratico. Ieri ha prevalso la ragionevolezza della maggioranza degli elettori di una regione come l’Emilia-Romagna, che di fronte alla chiamata alle armi di Salvini e alla sua violenta propaganda politica hanno scelto di ritornare alle urne, anche grazie alla mobilitazione nelle piazze che è scaturita proprio dalla violenza arrogante del leader leghista. Ora la nuova mappa della regione si torna a colorare di rosso. Ma alla fine di una campagna estenuante occorre tornare a guardare ai luoghi più difficili e ostili, e tornare a mettersi in ascolto. Evitando da subito la tentazione (forte, dopo un successo così ampio e insperato) di rinchiudersi di nuovo nelle proprie bolle autoreferenziali e asfittiche. Solo il ripensamento della formula di gestione dei poteri di gestione dei territori, infatti, unitamente a un maggiore e più costante radicamento potrà permettere l’individuazione dei malesseri diffusi, rispondendo a quella richiesta di riconoscimento che sin qui è mancata.