I presidenti americani sono sempre stati interessati alla storia, soprattutto al modo in cui verranno ricordati dai posteri; guardano ai modelli del passato per trarne esempio e insegnamento, per cercare di comprendere quali sono gli effetti di lunga durata delle decisioni prese. Insomma, vi è la consapevolezza che le lezioni della storia siano in grado di fornire una bussola per le decisioni da prendere nel presente.

Molti storici americani, come Arthur Schlesinger Jr durante l’amministrazione Kennedy, hanno svolto un ruolo di consiglieri politici; e Obama spesso invitava storici, anche di diverso orientamento, alla Casa Bianca, alcuni dei quali hanno collaborato alla stesura di alcuni dei suoi discorsi politici. Lo stesso Trump, certo dallo spessore intellettuale non paragonabile a quello di Obama, qualche volta ha fatto riferimento a coloro che lo hanno preceduto, come modelli a cui ispirarsi: Andrew Jackson, campione della retorica populista democratica ottocentesca, e, naturalmente, Ronald Reagan.

La velocità e volatilità che sembrano in apparenza guidare le decisioni dell’attuale presidente – che pure non perde occasione di autocelebrarsi come colui che lascerà un segno indelebile nella politica statunitense e internazionale – non appaiono però sempre imperniate su ciò che la storia, anche recente, può insegnare. Ad esempio, Trump, prima di dare il via libera all’uccisione del generale iraniano Qasem Soleimani, avrebbe forse dovuto riflettere su quanto Ronald Reagan confessò a uno dei maggiori intellettuali conservatori statunitensi, William Buckley: “Bill, il Medio Oriente è un posto complicato – insomma non propriamente un posto, più uno state of mind. A disordered mind. Una mossa precipitosa o sbagliata rischia di produrre immediatamente il caos”.

Più che Reagan, Trump sembra aver avuto in mente, secondo alcuni osservatori politici conservatori, la battuta della piccola e coraggiosa Arya, nell’ultima stagione de Il Trono di Spade, quando, di fronte al rischio dell’annientamento da parte degli Estranei, risponde: “Not today!”. O, si potrebbe dire, la sua è stata una lettura selettiva con l’ombra minacciosa di un ritorno al 1979, alla presa degli ostaggi americani all’ambasciata di Teheran che costò la vittoria a Jimmy Carter, trascurando la lunga e travagliata storia delle relazioni fra Stati Uniti e Iran, il modo in cui l’azione americana, quando non debitamente calcolata, finisca per rinsaldare antiche inimicizie invece che giocare a favore dei progetti statunitensi. Se la decisione di Trump sia foriera di un ulteriore processo di destabilizzazione dell’area o se invece, come vorrebbero i conservatori, sia prova della capacità strategica di Trump di avviare una nuova fase basata sulla deterrenza, sulla “de-escalation”, secondo le parole del segretario di Stato Michael Pompeo, sarà la storia, appunto, a dirlo.

È certo lecito ritenere che alzare il livello dello scontro con l’Iran sia un’opportunistica mossa per distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica americana dalle udienze per l’impeachment

È certo lecito ritenere che alzare il livello dello scontro con l’Iran sia un’opportunistica mossa per distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica americana dalle udienze per l’impeachment che inizieranno in Senato nei prossimi giorni. Naturalmente, non c’è dubbio che Trump sia stato tentato dalla voglia di sviare l’attenzione da un processo che può rischiare di compromettere la sua elezione. Tuttavia, sarebbe opportuno evitare una lettura schematica. Certamente l’imprevedibilità delle decisioni di un presidente che non ha problemi a cambiare improvvisamente idea (come del resto anche la vicenda iraniana dimostra, visto che in precedenza Trump si era mostrato piuttosto prudente) costituisce una variabile tutt’altro che trascurabile. Ma è anche vero che Trump alterna irruenze verbali ad azioni più prudenti o a vere e proprie marce indietro, come nel caso della minaccia di colpire i siti culturali iraniani prontamente ritirata.

Sul piano della politica interna, l’impeachment costituisce un intralcio per la campagna elettorale di Trump, ma non molto di più. Nonostante la presa di distanza di due senatrici, Lisa Murkowski e Susan Collins, dalle improvvide dichiarazioni di esponenti repubblicani di primo piano secondo i quali il verdetto è già stabilito, i numeri in Senato sono ampiamente favorevoli a Trump. Anche nel caso in cui si decidesse di accettare le testimonianze di esponenti dell’amministrazione (come quella di John Bolton, ex consigliere per la sicurezza), difficilmente, salvo rivelazioni eclatanti, queste rovesceranno la situazione. Lo zoccolo duro dell’elettorato conservatore magari non sempre è d’accordo con le esternazioni del presidente e l’uso compulsivo dei social, ma continua a riporre la sua fiducia in Trump. La base che lo aveva eletto nel 2016, infatti, continua a sostenerlo e ritiene, anzi, che i successi (i suoi e quelli a lui attribuiti) soprattutto dal punto di vista economico siano tali che, come cento anni fa, gli Stati Uniti beneficeranno di nuovi, ruggenti, Anni Venti.

Una crescita economica senza precedenti (ma con la forbice delle disuguaglianze che continua a essere molto ampia nonostante un aumento relativo dei salari), la sufficienza energetica, che vede gli Stati Uniti per la prima volta dalla presidenza Eisenhower come maggiore esportatore di gas liquido (e un’emergenza climatica di primo grado visto che 9 dei 10 peggiori incendi in California sono avvenuti negli ultimi anni), una politica commerciale e tariffaria che sembra avere successo anche nei riguardi di un competitor aggressivo come la Cina, una postura più muscolare in politica estera che appare sintomo di una rinnovata leadership statunitense (l’assassinio di Soleimani avviene dopo l’altro di Al Baghdadi) sono tutti fattori su cui Trump può far leva, soprattutto rispetto a un Partito democratico troppo diviso fra tentazione di puntare al centro (Biden) e istanze più radicali (Warren, Sanders) e che fra poche settimane, con le primarie in Iowa e New Hampshire, potrà dimostrare di essere in grado o meno di mobilitare la coalizione vincente che aveva permesso la rielezione di Obama nel 2012. In particolare, un’incognita appare la minoranza latina che, nonostante le politiche restrittive in tema di immigrazione, secondo un recente sondaggio commissionato dal sito politico The Hill, vede quasi il 40% di intervistati dichiarare il proprio appoggio a Trump.

Siamo dunque alla vigilia dei nuovi “ruggenti Anni Venti”? Le analogie storiche sono sempre piuttosto discutibili. Cento anni fa, le elezioni americane per la presidenza furono vinte dal repubblicano William Harding all’insegna dello slogan “Ritorno alla normalità”. La “normalità”, nel 1920, significava ritorno al governo minimo, non all’isolazionismo bensì a un ‘internazionalismo conservatore’ – fiducioso nei benefici dovuti all’apertura dei mercati e agli scambi commerciali e nella capacità di guida di un modello statunitense che si imponeva dal punto di vista economico, scientifico, tecnologico e culturale –, a una restrizione dell’immigrazione e alla riaffermazione della superiorità dell’America bianca, anglosassone e protestante. Molti, negli Stati Uniti, vorrebbero un “ritorno alla normalità”, questa volta però in termini radicalmente opposti da quelli del 1920: un “normale” rapporto istituzionale fra Congresso, presidenza e apparato giudiziario, il ritorno a una civility nel dibattito pubblico e politico, a una politica che abbia una visione del futuro, al rispetto delle diversità senza che questo significhi opporre un sistema normativo a un altro, altrettanto normativo, a una politica di cooperazione e di apertura e non di barriere nazionaliste e nuovi muri.

Cento anni fa, “il ritorno alla normalità” fu uno slogan che voleva riportare indietro le lancette della storia. I primi anni Venti furono anni tutt’altro che “normali”: l’ascesa del secondo Ku Klux Klan, la repressione del radicalismo e del movimento operaio, il proibizionismo erano sintomi delle due e più Americhe che si guardavano con reciproca diffidenza mediante stereotipi (i rozzi, antimoderni, fondamentalisti conservatori dell’America rurale vs la corrotta e immorale Babilonia delle grandi città). I “ruggenti anni Venti” della Harlem Renaissance, dei locali jazz e della Hollywood cinematografica, dei grandi eventi sportivi di massa, della crescita economica segnata dai consumi di massa, dalla diffusione della radio e della pubblicità non devono far dimenticare le intolleranze, i linciaggi dei neri negli Stati del Nord e del Midwest della grande emigrazione degli anni della Grande guerra e le critiche alla democrazia, ritenuta ormai ridotta a una folla di individui manipolabili e raggirabili da leader carismatici, come sosteneva Walter Lippmann. Un quadro che presenta non poche analogie con la situazione contemporanea.

La sbornia neoliberista sta mostrando, ancora una volta, che affidarsi al mercato può favorire alcuni, lasciando alla deriva i molti

Tuttavia, negli anni Venti del Novecento, di fronte a una politica incapace di affrontare conflitti sociali e culturali, il capitalismo consumista, l’impero irresistibile, per richiamare Victoria De Grazia, ambiva a fornire risposte: i consumi come fattore di integrazione e ampliamento della classe media. Poi ci fu il 1929 e la politica riprese il controllo con le ricette newdealiste. Cento anni dopo, se la politica è debole, il capitalismo non sta molto meglio e la sbornia neoliberista sta mostrando, ancora una volta, che affidarsi al mercato può favorire alcuni, lasciando alla deriva i molti; che l’accesso ai consumi, se non accompagnato da politiche di riequilibrio sociale, più che rispondere ai desideri individuali alimenta ansie, risentimenti, rivendicazioni. Soprattutto, cento anni dopo, come dimostra la sfida costante alla leadership statunitense da attori statali e non statali, gli Stati Uniti non possono più contare sul monopolio della modernità. L’America First di Trump, così, continua a guardare al passato, ma poco alla storia. E senza storia, lo sappiamo, non c’è futuro.