Il video che coglie la reazione del papa, strattonato da una fedele in piazza San Pietro la sera del 31 dicembre, è stato oggetto dei commenti più disparati, esattamente in linea con quanto accade da alcuni anni per ogni gesto, discorso o riforma di Bergoglio. Non è mancato, in particolare, chi ha raffigurato quelle immagini come un prezioso momento di umanizzazione della figura del pontefice. Ancora oggetto di venerazione da parte dei fedeli, ma non più distante e inaccessibile, nel 2020 anche il papa attraversa il mondo come una persona in carne e ossa, con la propria  fragilità e le proprie debolezze.

In fondo, come ha scritto Marino Niola su «Repubblica», se è vero che il pontefice è il servo dei servi di Dio, è altrettanto vero che l’infinitudine della sua persona spirituale è contenuta nella finitudine di una persona umana.

Questa evoluzione dell’immagine del papa, cominciata indubbiamente con Giovanni Paolo II, è stata fortemente accelerata da Francesco, che del suo corpo, della sua accessibilità e della sua semplicità ha fatto un tratto caratterizzante del pontificato, al punto da potersi sostenere che essa accompagni e sorregga il progetto di rinnovamento del suo magistero. Forma e sostanza del pontificato sarebbero, in pratica, un tutt’uno inscindibile.

A cogliere tali trasformazioni in tutta la loro portata, ben prima che il video del 31 dicembre ne amplificasse alcune casuali e marginali conseguenze, sono stati soprattutto un film e una serie tv. Un film – Habemus Papam di Nanni Moretti – ha anticipato nel 2011 il conflitto dilaniante che può vivere un uomo chiamato a divenire papa, sollevando – in un momento in cui sembrava del tutto irreale – quel tema del rifiuto di rivestire il ruolo di vicario di Dio che si sarebbe presentato alla contemporaneità poco tempo dopo, con le dimissioni di Joseph Ratzinger. Vi era in quel film, per l’appunto, una curvatura dello sguardo che illuminava l’uomo e metteva in ombra il pontefice, e che ritornerà, qualche anno dopo, nella serie The young pope, incentrata sulla figura di Lanny Belardo, il giovane cardinale americano, interpretato da Jude Law, asceso a sorpresa al soglio pontificio e ben determinato a lasciare un segno profondo nella storia della Chiesa.

Gli occhi magnetici, quasi di ghiaccio, di Papa Pio XIII, la sigaretta fumata a più riprese, la Coca-cola sorseggiata con gusto: sono tutti elementi pop che umanizzano una figura che per secoli si è nutrita della sua invisibilità privata, della sua impenetrabilità, della sua algidità. Belardo maneggia con disinvoltura simboli e strumenti contemporanei ma li impianta su un pensiero conservatore, intenzionato a ripristinare un passato che il terzo millennio della cristianità potrà in qualche modo contaminare, ma certo non addolcire. Belardo utilizza con maestria i media ma sa anche scomparire, rendersi invisibile per suscitare il mistero, ben sapendo che senza mistero non c’è fede né plausibilità della religione in quanto tale. Belardo è giovane, e con i “nuovi” che nel nostro Paese si sono affacciati al potere in questi anni – da Renzi a Salvini – condivide numerose caratteristiche: gioviale, affabile, informale nell’abbigliamento, nel linguaggio e nei modi, ma deciso, determinato, spietato con i nemici e forse ancor più con coloro che dovrebbero essergli amici.

Un papa, quello raccontato da Paolo Sorrentino, che ci appare modernissimo nella forma quanto cocciuto restauratore della tradizione nella sostanza, impegnato a proporsi come leader carismatico (giammai populista, ma piuttosto predestinato dalla nascita, scelto da Dio per vie misteriose) e al contempo custode dell’ortodossia, capo di una istituzione millenaria e atemporale, dichiaratamente indifferente alle esigenze della storia e dei suoi fedeli.

Lenny Belardo è stato la maschera allegorica di un pontefice che, con il suo ostentato tentativo di restaurare i segni di una tradizione ormai anacronistica, rivela le contraddizioni di una Chiesa che, ai suoi occhi, sembra aver messo da parte Dio per inseguire, come un partito qualsiasi, il consenso delle masse. Per questo anticipa, contiene e prefigura molte delle critiche che dal 2016 a oggi i suoi avversari hanno rivolto al Pontefice reale, fino al punto di giungere a tacciare Francesco di eresia.

La Chiesa immobile di Belardo si situa esattamente all’opposto della Chiesa di Francesco che ritiene più importante aprire processi che possedere spazi (Evangelii gaudium, n. 223). La Chiesa di Belardo è rivoluzionaria nella sua difesa della tradizione quanto quella di Francesco è rivoluzionaria nella sua apertura alla modernità, ma proprio per queste ragioni The Young Pope, con le sue forzature, con i suoi passaggi surreali, con le sue libertà forse anche irriguardose, induce a riflettere su quello che la Chiesa potrebbe essere domani o, per meglio dire, su quello che le diverse componenti del cattolicesimo immaginano o temono di trovare all’uscita del tunnel. Alla fine della sua grande crisi vi sarà per la Chiesa un destino da agenzia formativa delle coscienze in un Occidente ormai privo di altre agenzie formative? O il futuro nasconde il compito di rappresentare una riserva di valori a cui le società moderne, indipendentemente dalla fede dei singoli, possono attingere in fasi di crisi come quella attuale? O magari si dovrà assecondare la trasformazione in un club di influencer, progressisti nella dimensione sociale e collettiva, difensori delle minoranze e dell’ambiente, ma conservatori sul piano delle libertà individuali, fermi nel negare al singolo il diritto a disporre della propria vita e del proprio corpo? O, invece, sarebbe meglio per i credenti rinchiudersi in una comunità rigida e salda nei propri dogmi, fieri di essere divenuti una minoranza creativa che custodisce il Verbo e il mistero, radicali nelle convinzioni tanto da affidarsi alla profezia, più che all’acquisizione del consenso sociale, per plasmare il futuro? O forse, quel che aspetta il popolo di Dio è uno scontro fratricida tra alcune di queste prospettive?

Venerdì 10 gennaio verrà trasmessa su Sky Atlantic la prima delle nove puntate della serie The New Pope, a tutti gli effetti prosecuzione di The Young Pope. Le anticipazioni filtrate sulla stampa ci fanno sapere che Lanny Belardo si risveglierà dal coma dopo che un nuovo conclave avrà provveduto a eleggere il suo successore, interpretato da John Malkovich, che prenderà il nome di Giovanni Paolo III. Un’imprevedibile concatenazione di eventi, dunque, porterà alla coabitazione tra due pontefici che si sfideranno – senza esclusione di colpi? – con la propria visione di Chiesa e di mondo.

Fin qui il poco che sappiamo. Certo, Paolo Sorrentino ci ha abituato a intraprendere sentieri mai battuti, ad anticipare, ad andare oltre il già detto, così che risulta lecito immaginare che nella costruzione della trama della serie egli non si sia lasciato ispirare da quello che già c’è, per quanto esso resti un evento eccezionale nella storia della Chiesa e del mondo. D’altra parte, se si pensasse alla coabitazione attuale di Francesco e Benedetto XVI come un elemento di conflittualità latente all’interno del cattolicesimo, incubatore delle tensioni che lacerano il popolo di Dio, si traviserebbe la realtà e non si comprenderebbe appieno la sostanza del Great Game ecclesiale. Quello tra Bergoglio e Ratzinger è stato un dualismo più mediatico che sostanziale, già superato dai fatti e dai comportamenti dei protagonisti. Ma se invece si pensa alla Chiesa di oggi, divisa, dilaniata dalle polemiche, giunta – con l’accusa di eresia rivolta al pontefice – al limite della rottura, esposta dagli scandali finanziari e dal dramma della pedofilia a strumentalizzazioni di ogni genere, eppure ancora viva, anzi considerata da più parti ultimo argine all’avanzata del sovranismo e della diseguaglianza trumpista, allora la sfida per il potere ingaggiata da Jude Law e John Malkovich potrebbe anticipare, di nuovo, uno scenario che solo pochi anni fa sarebbe stato catalogato sotto la voce fantascienza più che sotto quella di fiction.