Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune (Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, 26 agosto 1789, art. 1)

Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza (Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino, 10 dicembre 1948, art. 1)

Tutti gli uomini, dotati di un'anima razionale e creati ad immagine di Dio, hanno la stessa natura e la medesima origine; tutti, redenti da Cristo, godono della stessa vocazione e del medesimo destino divino: è necessario perciò riconoscere ognor più la fondamentale uguaglianza fra tutti (Gaudium et spes, 29, 7 dicembre 1965)

È indubbio che il cristianesimo, fin dal suo sorgere, abbia introdotto una radicale originalità nei rapporti tra religione e società, tra appartenenza religiosa e appartenenza alla polis. Quando Gesù ha insegnato che occorre «rendere a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mc 12, 17 e par.) è stata affermata una distinzione tra potere politico ed evento cristiano capace di scuotere in profondità i rapporti sociali e la vita della collettività. E a questo proposito si deve confessare che i cristiani stessi non sempre hanno saputo trarre le dovute conseguenze da questa parola di Gesù: il loro rapporto con la società ha trovato soluzioni molto diverse nella storia, diventando, di volta in volta, occasione di incontro, di confronto, talora addirittura di scontro tra Chiesa e società civile.

Se ripercorriamo brevemente la storia del cristianesimo, troviamo alle origini un atteggiamento dei cristiani che poteva apparire di astensione, di fuga rispetto alla polis. Nei primi tre secoli i cristiani riconoscono la legittimità dell’impero romano – Tertulliano, per esempio, assicura che i cristiani pregano incessantemente perché nella società regnino pace, giustizia e ordine sociale, e pregano dunque anche per le autorità politiche – ma la loro lotta anti-idolatrica provoca diffidenza nei loro confronti. Sovente essi si rifiutano di fare parte dell’esercito imperiale, si astengono dal partecipare all’amministrazione civile, si mostrano critici verso i costumi e le consuetudini sociali della polis: ciò spiega le persecuzioni che si abbattono su di loro a fasi alterne durante i primi secoli della nostra era. Secondo la testimonianza di Origene (240 ca.), Celso accusa i cristiani in questi termini:

Celso ci esorta a partecipare al governo della patria, quando ciò sia necessario, e a fare questo per la salvezza delle leggi e della pietas. Ma noi, in qualunque città abitiamo, conosciamo una specie diversa di patria, fondata sulla parola di Dio […]. Non è per sfuggire ai doveri civili di questa esistenza che noi cristiani ci asteniamo da certe responsabilità, ma per dedicarci a un servizio più santo.

Un bellissimo testo della stessa epoca, la Lettera a Diogneto, parla dei cristiani come «anima nel mondo», legge tutta la loro solidarietà con la compagnia degli uomini, mostra una visione positiva della società e una simpatia con la storia degli uomini, pur non chiedendo ai cristiani di partecipare direttamente alla costruzione della città terrena. Basti citare un passo assai noto di questo piccolo capolavoro:

I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per territorio, né per lingua, né per abiti. Non abitano neppure città proprie, né usano un linguaggio particolare, né conducono un genere speciale di vita […]. Ogni terra straniera è patria per loro e ogni patria è terra straniera. Si sposano come tutti e generano figli, ma non espongono i loro nati. Mettono in comune la mensa ma non il letto.

In questo brano appare molto chiara la differenza dei cristiani, che risulta dal loro essere una minoranza all’interno di una società pagana; una minoranza che sa vivere con simpatia tra i non cristiani e che, nel contempo, è consapevole di poter offrire un contributo specifico su un tema per lo più sconosciuto al mondo circostante: il tema della concreta condivisione dei beni, strumento per trascendere le differenze e le disuguaglianze sociali.

Ma all’inizio del IV secolo la Chiesa, con il battesimo dell’imperatore Costantino, dà origine alla cristianità, in cui potere politico e religioso non saranno quasi mai identificati, ma ove il potere – l’universalis potestas – è pensato, proclamato e percepito come cristiano: è il lungo periodo del compromesso tra Chiesa e potere politico in Occidente e, specularmente, del monolitismo teocratico in oriente. E così la Chiesa, da perseguitata, finisce per trovarsi nella posizione di chi convive con il grande potere imperiale diventato cristiano, traendone anche benefici. Mi piace ricordare la reazione a questa nuova situazione da parte di Ilario, vescovo di Poitiers, che nel 360 scrive:

Combattiamo contro un persecutore insidioso, un nemico che lusinga […]. Non ferisce la schiena con la frusta, ma carezza il ventre; non confisca i beni, dandoci così la vita, ma arricchisce, e così ci dà la morte; non ci spinge verso la vera libertà imprigionandoci, ma verso la schiavitù onorandoci con il potere nel suo palazzo; non colpisce i fianchi, ma prende possesso del cuore; non taglia la testa con la spada, ma uccide l’anima con l’oro e il denaro.

Dal V all’XI secolo, poi, la Chiesa si trova investita di funzioni di supplenza, a causa della caduta dell’Impero romano d’Occidente e dell’«emergenza barbarica», fino ad assumere un potere che si manifesterà sempre più come temporale: essa commette così il peccato di non dare più a Cesare quello che è di Cesare, ma di pretendere per l’autorità religiosa anche la funzione politica…

Ma la storia avanza e questa compromissione conosce significative contraddizioni. A partire dal XVI secolo, in particolare, inizia un percorso di autonomia delle sfere umane rispetto a quelle di competenza della religione e a qualsiasi riferimento al trascendente. Mentre la cristianità, ossia quell’identità tra società e Chiesa nata con la pax constantiniana, va in frantumi, la scienza rivendica un’autonomia della ragione scientifica rispetto alla verità della religione; la politica rivendica la sua alterità, soprattutto dopo le sanguinose guerre di religione, ed elabora un diritto fondato su base razionale, non più religiosa; anche la morale, seppur più lentamente, cerca una sua fondazione autonoma rispetto a qualsiasi riferimento trascendente. È l’epoca della modernità, in cui la laicità appare come il frutto del processo di secolarizzazione, cioè del progressivo allontanamento dall’influsso della religione cristiana sulla vita della società.

In Italia il rapporto tra Stato e Chiesa è stato segnato da vicende alterne, in cui il cattolicesimo ha cercato di ergersi a religione di Stato, accarezzando ancora l’ipotesi di uno Stato confessionale

Questo processo è stato vissuto, soprattutto nei Paesi cattolici, mediante una forte contrapposizione tra le idee propugnate dall’Illuminismo, diffuse anche dalla rivoluzione francese, e la tradizione cattolica, con esiti molto diversi da nazione a nazione. In Francia la laicità si è posta in termini non solo di separazione tra Stato e Chiesa, ma anche di esclusione dallo spazio politico di ogni riferimento religioso, con la conseguenza di relegare l’appartenenza religiosa e la sua espressione nella sfera privata. In altri Paesi, come l’Italia e la Spagna, il rapporto tra Stato e Chiesa è stato segnato da vicende alterne, in cui il cattolicesimo ha cercato di ergersi a religione di Stato, accarezzando ancora l’ipotesi di uno Stato confessionale. Per restare all’Italia, con la caduta del potere temporale della Chiesa e la fine dello Stato pontificio, i cattolici sono stati indotti ad astenersi dal partecipare alle istituzioni di uno Stato che aveva negato alla Chiesa il suo secolare potere politico.

Negli stessi anni, però, si è aperta una nuova fase in cui è maturata poco per volta una necessaria distinzione degli ambiti: da parte della Chiesa è apparsa possibile la rinuncia alla propria egemonia normativa, da parte dello Stato la rinuncia a porsi in posizioni di scontro rispetto alla Chiesa. È stata una stagione in cui i cristiani hanno dovuto inventare modi di partecipazione alla vita della polis, mentre la Chiesa ha formulato la «dottrina sociale» per dare un’ispirazione conforme alla fede a questa inedita forma di partecipazione dei cristiani alla storia e al mondo.

Insomma, è maturata una giusta separazione tra Stato e Chiesa, ma anche una presenza dei cristiani nella politica, nella vita sociale, nella lotta per la giustizia, la pace, i diritti dell’uomo, la libertà. E così, nell’ora del Concilio Vaticano II e negli anni immediatamente successivi, i cristiani hanno formulato un giudizio ampiamente positivo su questo processo di secolarizzazione e di scoperta della laicità dello Stato, come testimonia, per es., l’esortazione apostolica di Paolo VI Evangelii nuntiandi. Ed è stato lo stesso Paolo VI a leggere nella fine del potere temporale della Chiesa un evento provvidenziale, in quanto ha reso la Chiesa stessa più evangelica e ha abilitato i cristiani alla costruzione della polis insieme agli altri uomini.

A mio avviso, si è trattato di una stagione di cui oggi non siamo purtroppo ancora in grado di fare una lettura intelligente; ma un giorno sarà possibile con fierezza divenire consapevoli dell’apporto che i cristiani, e i cattolici in particolare, hanno dato all’idea e alla costruzione dell’Europa, allo sviluppo della democrazia nel nostro Paese, all’emergere di valori legati alla difesa e alla promozione della persona umana.

I cittadini e l’uguaglianza. In questa storia della presenza dei cristiani nella società, quale apporto essi hanno fornito riguardo al valore dell’uguaglianza?

È indubbio che i cristiani abbiano sempre confessato l’uguale dignità dell’uomo e della donna, così come di ogni essere umano, a qualunque etnia, lingua o popolo appartenga. E questo perché le Sante Scritture affermano, fin dalla prima pagina del libro della Genesi: «Dio creò il terrestre a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò» (Gen 1, 27). E quando il cristianesimo si è inculturato nel mondo greco-romano ha anche ereditato il diritto di uguaglianza forgiato da quella cultura, l’isonómia, principio che informava di sé la vita della polis. Di più, in nome della fede cristiana Paolo è giunto a dichiarare che, dopo l’evento Gesù Cristo, tutti gli esseri umani sono «originalmente» uguali: «Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3, 28). Ecco perché le differenze di etnia, di classe e di sesso nello spazio ecclesiale sono superate per mezzo della caritas, quell’amore unilaterale che non esige neppure di essere corrisposto. In tal modo il cristianesimo ha favorito quel processo per cui il principio dell’uguaglianza è giunto a riguardare davvero tutti gli appartenenti alla polis, non solo i civites ma anche i barbari; va riconosciuto che, soprattutto nell’ora della pressione da parte dei barbari ai confini della civitas romana, i cristiani hanno saputo dare un grande contributo, riconoscendo l’uguaglianza dei diritti a tutti quelli che entravano a far parte di quello spazio civile.

D’altra parte, occorre purtroppo ammettere che ben presto, già a partire dalla fine del IV secolo, il cristianesimo è stato foriero di disuguaglianza: infatti coloro che restavano fedeli alla religio dei padri, al paganesimo, venivano privati dell’uguaglianza con i civites, ormai identificati esclusivamente con cristiani appartenenti alla grande Chiesa... Insomma, se nel 313 il cristianesimo era divenuta religio licita, religione lecita al pari dei culti pagani, nel 392 l’imperatore Teodosio I, influenzato anche da Ambrogio, emise a Milano un editto che stabiliva la messa al bando di qualunque sacrificio pagano pubblico o privato, e vietava per la prima volta l’accesso ai santuari e ai templi e l’adorazione di statue. In quel testo si afferma, tra l’altro, che chi praticava la religione dei romani doveva essere accusato di lesa maestà: era reus majestatis, reus violatae religionis.

Durante il «regime di cristianità», di fatto, i cristiani accettarono di convivere con le disuguaglianze che segnavano la società: disuguaglianza uomo-donna, disuguaglianze economiche, disuguaglianze giuridiche; essi accettarono persino la disuguaglianza religiosa, la cui conseguenza più nefasta fu quella di rendere vittime gli ebrei, gli eretici, i pagani, quanti cioè erano extra ecclesiam. L’annuncio del Vangelo continuava ad affermare l’uguaglianza di tutti gli uomini, ma in realtà si accettava e si instaurava la disuguaglianza in nome di una sua interpretazione restrittiva, che non riconosceva uguali diritti e uguale dignità a chi non apparteneva alla societas cristiana… E qui occorre ricordare che lungo tutto il Medioevo solo gli ideali monastici hanno permesso di tenere viva l’esigenza dell’uguaglianza tra barbari e latini, tra nobili e appartenenti alle classi sociali più basse, tra ricchi e poveri. Nella vita cristiana secolare, invece, il magistero restava chiuso nello schema dell’«uguaglianza proporzionale», che riconosceva a ciascuno solo ciò che gli era dovuto in base al suo rango, in base all’ordo e alla potestas accordatigli dal consesso civile.

Alle nuove esigenze spirituali di uguaglianza, emerse anche grazie alle istanze sollevate dalla Riforma, la Chiesa cattolica reagirà in modo sordo e negativo, fino a esprimere un magistero difensivo e apologetico, che condannerà la «modernità», soprattutto in seguito all’emergere di dottrine riguardanti proprio la libertà e l’uguaglianza: basterebbe ricordare come in quei secoli il cristianesimo si sia macchiato della pratica della schiavitù, giustificandola anche a livello giuridico. Tra il XVIII e il XIX secolo si consumerà dunque un grave scontro tra la Chiesa e il pensiero liberale e illuministico: come dimenticare in proposito la condanna ecclesiastica della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, enunciata a Parigi dall’Assemblea Nazionale nel 1789? Sì, va detto con chiarezza: se in quei secoli c’è stata affermazione del diritto di uguaglianza, questo è avvenuto fuori dello spazio cattolico, e con una dura opposizione della Chiesa, che ha conosciuto il suo apice nel magistero di Pio IX, sintetizzato nel Sillabo del 1864.

Il rapporto tra Chiesa e società civile oggi. Quale rapporto si può cogliere tra Chiesa e società civile in quest’ora della «globalizzazione», nell’ora della percezione sempre più diffusa del mondo come «villaggio globale»? Come si collocano oggi i cristiani nella società?

Possiamo dire con sicurezza che l’autonomia tra Chiesa e Stato è un dato accettato ormai da tutti, almeno in Occidente; la definizione della laicità dello Stato richiede però una continua revisione, per i mutamenti e le dinamiche accelerate nella società odierna. Di fatto la laicità va costantemente ridefinita, proprio tenendo conto di alcuni nuovi elementi socio-culturali.

La definizione della laicità dello Stato richiede una continua revisione, per i mutamenti e le dinamiche accelerate nella società odierna. Di fatto la laicità va costantemente ridefinita, proprio tenendo conto di alcuni nuovi elementi socio-culturali

Innanzitutto occorre tener presente che siamo in una nuova fase della secolarizzazione, in cui si registra l’emergenza del soggetto, dell’individuo, che si percepisce come autoreferenziale, unicamente teso a realizzare il proprio desiderio e incentrato sul proprio interesse: i desideri di questo soggetto tendono ad essere sentiti come «diritti» dell’individuo. Zygmunt Bauman descrive giustamente la nostra società come società di «turisti consumatori», in cui vige il primato del «fare esperienze», del perseguire il proprio desiderio in modo narcisistico. È una società senza un orizzonte comune, senza la preoccupazione della solidarietà e della percezione dell’altro in vista di un bene comunitario: individualismo indifferente ed edonismo egoista tendono a richiedere da parte dello Stato il riconoscimento di pretesi «diritti» che pongono la politica in congiunture finora inedite.

Un novum molto appariscente è poi la sopravvenuta condizione di minoranza da parte dei cristiani, minoranza numerica di fronte a una gran massa di indifferenti e di agnostici rispetto alla fede; in Italia tale condizione è però difficile da misurare, perché il 90% dei cittadini si dichiara cattolico, ma solo il 25% ha una prassi almeno domenicale di partecipazione alla vita cristiana… Questa condizione di minoranza è inoltre accentuata dal pluralismo delle religioni e delle culture ormai vistosamente presenti nella nostra società, un fenomeno che caratterizza in modo crescente la popolazione delle nostre città. Tale situazione di pluralismo di fedi, di visioni del mondo e, soprattutto, di etiche diverse, investe i vari livelli del rapporto tra fede e ragione, compreso il concetto di uguaglianza, causando reazioni di paura, sospetto, scontro...

In altre parole, come custodire e approfondire l’identità cristiana senza cadere in atteggiamenti di chiusura preconcetta e di rifiuto, di intolleranza e di rigetto? E come vivere questa volontà di incontro, questa possibilità di dialogo, senza cadere nella tentazione secondo cui «una religione vale l’altra», abdicando così anche alla propria storia e tradizione? Il problema non riguarda solo l’identità della fede cristiana, ma anche quella culturale di un popolo: in entrambi questi ambiti si assiste al fiorire di atteggiamenti ispirati da paura, da difesa di una identità definita una volta per sempre, quasi che ogni identità personale e culturale non si costruisse attraverso l’incontro e il confronto con gli altri!

Infine, un altro aspetto che costituisce come il quadro di fondo della situazione attuale è l’enorme capacità tecnologica causata dai progressi della scienza. Le conquiste scientifiche hanno portato l’uomo a un potere impensato e dai limiti sconosciuti: si è giunti fino alla possibilità di creare con mezzi tecnologici l’uomo stesso e, specularmente, a quella di distruggere l’umanità e la vita sulla terra. Si pensi, per esempio, alle potenzialità che la scienza oggi possiede in ordine alla determinazione del nascere e del morire di ogni uomo… Anche questa situazione richiede una ridefinizione della laicità dello Stato, il quale è chiamato a legiferare sovente su materie che dividono e contrappongono le etiche e le fedi presenti nella società.

Nel febbraio del 2005 Giovanni Paolo II, in occasione dell’anniversario della legge sulla separazione tra le Chiese e lo Stato promulgata in Francia nel 1905, scriveva ai vescovi francesi:

Il principio di laicità, se ben compreso, appartiene alla dottrina sociale della Chiesa. Esso ricorda la necessità di una giusta separazione dei poteri […]. La non confessionalità dello Stato permette a tutte le componenti della società di lavorare insieme al servizio di tutti e della comunità nazionale […]. La laicità, lungi dall’essere un luogo di scontro, è realmente l’ambito per un dialogo costruttivo, nello spirito dei valori di libertà, di uguaglianza e di fraternità.

Nonostante queste affermazioni così chiare e decisive, noi assistiamo in realtà sempre di più ad atteggiamenti che finiscono per causare scontro e polemica tra Stato e Chiesa, tra cristiani e non cristiani, tra i laici non cristiani e alcune porzioni di Chiesa, proprio su come siano da intendere la laicità e l’uguaglianza dei diritti di quanti appartengono alla polis. Negli ultimi anni è in atto anche una ripresa dell’anticlericalismo, atteggiamento che è sempre una reazione a un clericalismo che si nutre di intransigenza, di posizioni difensive e di non rispetto dell’interlocutore non cristiano…

Conclusione. La “differenza cristiana”. Alla Chiesa è chiesto di stare nel mondo, nel pieno degli impegni e delle problematiche, con umiltà e intelligenza, senza pregiudizi né atteggiamenti ideologici, e senza logiche di inimicizia. Di certo, nell’opera di edificazione della polis che li accomuna agli altri uomini, i cristiani non hanno certezze o ricette: il Vangelo non fornisce formule magiche in base alle quali indicare la via che conduce infallibilmente alla realizzazione degli obiettivi di una polis. L’obbedienza creativa al Vangelo abilita invece il cristiano a immergersi nella storia, nella compagnia degli uomini, portando sempre un messaggio profetico, un messaggio per l’uomo.

Tale atteggiamento dovrebbe manifestarsi anche a proposito del tema dell’uguaglianza: non si dimentichi che nelle comunità cristiane delle origini vi è stata l’abilità di tradurre il messaggio dell’agape, dell’amore, in concreti atteggiamenti di uguaglianza. Basterebbe leggere i cosiddetti «sommari» degli Atti degli apostoli (cfr. At 2, 42-45; 4, 32-35; 5, 12-16), per comprendere come l’uguaglianza non fosse affermata solo in termini di dignità umana, ma anche a livello materiale: «Tutto era tra loro comune e a ciascuno era dato secondo il suo bisogno» (cfr. At 4, 32.35). Nessun egualitarismo, certo, ma una dinamica feconda in cui l’uguaglianza contrassegna la comunità cristiana e appare come una realizzazione visibile della forma della koinonia richiesta dal Vangelo.

Ebbene, in una società come la nostra, caratterizzata da relazioni fragili, conflittuali e di tipo consumistico, i cristiani sono chiamati a vivere una differenza proprio nella qualità delle relazioni, divenendo quella comunità alternativa che esprima, a favore di tutti gli uomini, la possibilità di relazioni gratuite, forti e durature, cementate dalla mutua accettazione e dal perdono reciproco. In questo consiste a mio avviso la «differenza cristiana», una differenza che chiede oggi alla Chiesa di saper dare forma visibile e vivibile a comunità plasmate dal Vangelo: nella costruzione di una vera communitas il cristianesimo mostra la propria eloquenza e il proprio vigore, e dà un contributo peculiare alla società civile in cerca di progetti e idee per l’edificazione di una città veramente a misura d’uomo. Né si può dimenticare che proprio con la capacità di originare forme di vita comunitaria, inventando strutture di governo ispirate a corresponsabilità, rapporti di autorità vissuti come servizio, il cristianesimo mostra la sua vitalità storica e svolge un’importante diaconia per la società civile. Questa «differenza cristiana», infine, deve esprimersi soprattutto nell’attenzione ai poveri, agli ultimi: Gesù ha infatti detto con chiarezza che saranno proprio i poveri il metro del giudizio finale (cfr. Mt 25, 31-46). Di più, per noi cristiani i poveri sono certamente il sacramento di Cristo (cfr. 2Cor 8, 9), ma sono anche «il sacramento del peccato del mondo», e nell’atteggiamento verso di essi si misura la nostra fedeltà al Signore e il nostro vivere nel mondo quale corpo di Cristo.

Sì, a mio avviso è decisivo che i cristiani oggi si esercitino più che mai, insieme agli altri uomini, nel cercare vie in cui l’uguaglianza dei diritti e della dignità delle persone, l’uguaglianza economica, l’uguaglianza di tutti i cittadini, a qualunque fede o etica appartengano, possa trovare realizzazione nella polis: su questo si gioca ancora una volta la loro fedeltà al Vangelo.

 

[Questo articolo è uscito per la prima volta su “il Mulino”, n. 4/2007. Lo riprendiamo oggi, vigilia di Natale, con il consenso dell’autore]