Il 9 dicembre sono state collocate nella pavimentazione attorno alla fontana dell’omonima piazza di Milano diciotto formelle, o meglio diciassette più una. Ricordano le vittime di quella prima strage, che segnò l’inizio della cosiddetta «strategia della tensione». Il «giorno dell’innocenza perduta» di cui domani ricorrono i cinquant’anni. Di ognuno di quei diciassette uomini si può leggere il nome, l’età, la professione: agricoltori, commercianti, periti agrari, amministratori di fondi… il ritratto di un’Italia che sembra lontanissima, più primo che secondo Novecento, tanto da rendere ancora più distante la percezione di quanto avvenne quel pomeriggio del 1969. 

Ma è un’ultima lapide, la diciottesima, a recare il testo che più pesa sulla pietra: «ordigno collocato dal gruppo terroristico di estrema destra Ordine nuovo». Questa è la verità storica emersa nel corso dei decenni, mentre accanto si dipanava un «processo impossibile», come Benedetta Tobagi lo ha definito. Nel 2005 la Corte di Cassazione confermava la sentenza di assoluzione per insufficienza o contraddittorietà delle prove degli imputati del terzo processo, ma nello stesso tempo accertava – «sia pure in chiave meramente storica» – il coinvolgimento degli ordinovisti Franco Freda e Giovanni Ventura, non più processabili perché assolti in via definitiva nel primo processo. Una formula inconsueta di conferma di una verità storica nella sede preposta a individuare la verità giudiziaria. Tra la beffa e il risarcimento. 

Ma una diciottesima vittima in realtà c’è: è Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico morto in questura la notte tra il 15 e il 16 dicembre, dopo tre giorni di fermo e un interrogatorio prolungato ben oltre i limiti legali. È la stessa associazione dei familiari delle vittime della strage a considerare Pinelli la diciottesima vittima e a sostenere, in questo cinquantesimo anniversario, il progetto di piantare in sua memoria un albero in piazzale Segesta, vicino alla sua abitazione.

Questi segni memoriali – significativamente, pietre nel selciato e alberi, che richiamano le forme più essenziali e diffuse della memoria della Shoah – si vanno ad aggiungere a un complesso di lapidi che nel tempo si sono sovrapposte e contrapposte in piazza Fontana. La prima per la strage nella Banca nazionale dell’Agricoltura venne collocata nel 1973 nell’aiuola antistante l’edificio. Dopo una manifestazione, nel 1977 le fu posta di fianco una lapide «non ufficiale» in ricordo di Pinelli. Nel 1979, la lapide per la strage venne tolta per lasciare spazio a una nuova, posta però sulla parete in pietra dell’edificio della banca, di fianco all’ingresso. Grigia su marmo grigio: quasi il ricordo dovesse venire assorbito dal muro, scomparendo in esso, fossile.

Questi segni memoriali si vanno ad aggiungere a un complesso di lapidi che nel tempo si sono sovrapposte e contrapposte in piazza Fontana

Intanto, la lapide per Pinelli diventava il simbolo – e il luogo – del conflitto attorno alla sua sorte, fino a prendere la forma delle due lapidi, con incise le due formule «ucciso innocente» e «innocente morto tragicamente».

Nel frattempo, il più evidente segno memoriale era sempre rimasto sotto gli occhi di tutti. Mentre l’Italia del 1969, e soprattutto Milano, veniva attraversata dalle tensioni degli anni Settanta e poi radicalmente trasformata dagli anni Ottanta, mentre cambiava il volto della città e il sistema finanziario mutava la propria scala, mentre la Banca veniva assorbita prima da Antonveneta poi da Monte dei Paschi di Siena, la grande insegna luminosa della Banca Nazionale dell’Agricoltura restava immutata al suo posto. Quasi che nessuno avesse il coraggio di toccarla.

Le fotografie in bianco e nero della sera brumosa e concitata del 12 dicembre 1969 prendono luce da quell’insegna. Scorrendo i giornali che precedono il giorno della strage si legge di un Natale più austero per i milanesi, con meno luminarie per la città. Ma Milano era comunque la città della «signorina Kores», che batteva a macchina tra le altre insegne accese in piazza Duomo, in questa modernità luminosa, colorata, pulsante, piena di promesse. Piazza Fontana, con la sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura, è a pochi passi da quel fremito, in un angolo di città che, seppure centralissimo, sembra avere un carattere di margine, di periferia, ancora oggi. Quella scritta luminosa era l’unica a illuminare quella zona.

La bomba scoppiò di venerdì; il lunedì la banca era già aperta, grazie a un «penosissimo restauro», come si legge sul «Corriere» di quella mattina. E la banca è rimasta aperta fino a oggi. Al suo interno sono cambiati gli arredi, ma la struttura è la stessa, sono gli stessi i marmi rosa e gialli della sala ovale a doppia altezza. L’acronimo BNA è rimasto sulle maniglie in ottone della porta a vetri all’ingresso. Stupisce come il logo e il nome dell’attuale istituto bancario rimangano in tono minore, solo accostati, su vetrofanie trasparenti.

Mentre fuori la memoria della strage appare difficile, conflittuale, rimossa e fortemente ribadita, all’interno della banca la memoria della strage sembra accompagnare di necessità la sua funzione quotidiana

Mentre fuori la memoria della strage appare difficile, conflittuale, rimossa e fortemente ribadita soprattutto dalla volontà dell’Associazione dei familiari delle vittime, all’interno della banca la memoria della strage sembra accompagnare di necessità la sua funzione quotidiana. Come racconta Fortunato Zinni, impiegato della banca sopravvissuto alla strage e rimasto al suo posto di lavoro fino alla pensione, il sindacato e il Consiglio d’Azienda di quella filiale hanno avuto un ruolo importante sia nella richiesta di verità che nel mantenimento della memoria. Tanto da fare restaurare l’insegna nel 2009, lo stesso anno in cui viene realizzata la scultura di Alberto Inglesi e Franco Biondi che rievoca il grande tavolo ottagonale sotto cui era collocata la bomba.

Lo stesso è accaduto alla stazione di Bologna, dove funzione e memoria hanno trovato un loro punto di equilibrio. Un equilibrio del tutto paradossale, però: un orologio fermo in una stazione e l’insegna di una banca che non esiste più. Queste incrinature del quotidiano, questi «inciampi nella funzione», rilanciano domande al nostro presente. E forse sono l’unico monumento possibile, in assenza di una consapevolezza profonda del Paese.