Negli anni Ottanta del secolo scorso la tradizione internazionalista del comunismo mondiale tramontò definitivamente, pur essendo ancora invocata nella retorica sempre più vuota di significato dei partiti-Stato del blocco sovietico e di gran parte dei partiti attivi in Occidente e nel Terzo Mondo. I comunisti italiani furono i primi e i più decisi nel liquidarla, per sostenere la prospettiva di una graduale convergenza con le forze della sinistra europea. Respinsero la richiesta di solidarietà dei sovietici al momento della guerra in Afghanistan e condannarono il colpo di Stato del generale Jaruzelski in Polonia, a costo di subire gli anatemi di Mosca e di tutti gli altri partiti comunisti. La loro mobilitazione pacifista contro gli euromissili mantenne il motivo dell’antiamericanismo, ma limitò quello del filosovietismo, collegandosi in particolare alle posizioni della socialdemocrazia tedesca in tema di sicurezza paneuropea e di priorità assegnata all’asse Nord-Sud del mondo, invece che al rapporto Est-Ovest.

Ciò nonostante, la «seconda Guerra fredda» portò i comunisti italiani all’isolamento interno e internazionale. Estromessi dalla sfera del governo dopo l’esperienza della «solidarietà nazionale», il loro conflitto con i socialisti raggiunse il culmine con il governo guidato da Bettino Craxi e scavò un fossato molto difficile da colmare tra le due forze della sinistra italiana. Lo «strappo» con Mosca congelò le relazioni con il mondo comunista, mentre i nuovi rapporti stabiliti con le socialdemocrazie dovevano ancora essere consolidati. Emarginato dal governo nella politica nazionale, il Pci non aveva più una sponda internazionale forte, anche se poteva vantare importanti relazioni di portata globale, inclusa quella con la Cina di Deng Xiaoping.

Berlinguer ritenne di rappresentare una posizione di principio indispensabile alla legittimazione nazionale del comunismo italiano, lasciando aperta la speranza che una riforma degli Stati e delle società di tipo sovietico potesse restituire una missione e un senso alla tradizione comunista. La lettura dello shock globale degli anni Settanta in chiave di crisi del capitalismo e del modello socialdemocratico, invece che nella chiave di una trasformazione dinamica delle economie occidentali destinata ad approfondire il divario dal «socialismo reale», contribuì molto a porre l’accento sull’eccezionalismo del comunismo italiano e sul sogno di una «terza via» tra socialismo sovietico e socialdemocrazia. In fin dei conti, il Pci costituiva una forza di massa che nessuno poteva ignorare, sul piano nazionale come su quello internazionale, ed era rimasto l’unico partito comunista a vantare rapporti di forza favorevoli rispetto ai socialisti: si poteva sopportare il rischio dell’isolamento in una congiuntura così sfavorevole, segnata dal rilancio ideologico della presidenza Reagan e dalla politica di potenza dei gerontocrati sovietici.

 

[L'articolo completo pubblicato sul "Mulino" n. 5/19, pp. 772-779, è acquistabile qui]