“O facciamo una rivoluzione o non ce la faremo”, così Nicola Zingaretti, nel suo intervento alla recente Assemblea nazionale del Partito democratico. Non è la prima volta, in verità, che si ascoltano affermazioni molto critiche sullo “stato del partito” e della sua organizzazione; ma stavolta gli accenti sembrano più sinceri: “la riforma del partito è necessaria perché lo strumento che abbiamo non è più utile a svolgere la sua funzione. Dobbiamo cambiare tutto”. Nelle cose dette da Zingaretti, e riprese dai giornali, a finire sotto accusa è il regime correntizio del partito: discutere “è un gran bene”, ma troppo spesso nel partito “c’è un gruppo dirigente nazionale attorno al leader ma poi c’è un regime correntizio che appesantisce tutto. Ci sono realtà territoriali feudalizzate che si collocano da una parte o dall’altra, con un leader o un altro, a prescindere dalle idee”.

Al di là delle parole, sembra che vi siano anche alcune prime scelte conseguenti: una commissione, presieduta dall’ex segretario Maurizio Martina, è stata incaricata di predisporre – entro novembre - una proposta di riforma dello Statuto; Gianni Cuperlo ha avuto l’incarico di istituire una “fondazione” unitaria di cultura politica del partito (una scelta, ricordiamo, che era stata consapevolmente scartata, quando il Pd nacque…). In autunno dovrebbe poi svolgersi una “costituente delle idee”.

E tuttavia, c’è qualcosa che non convince, o di non sufficientemente elaborato, nelle accuse che vengono rivolte al modo di essere del Pd. In particolare, le critiche al “regime correntizio” rischiano di rivelarsi come le classiche grida manzoniane. Perchè il Pd vive sin dalle origini in questa condizione di “feudalizzazione”? Bastano forse gli appelli alla buona volontà, perché una tale condizione venga superata? Quali sono le ragioni strutturali che alimentano la mala pianta del correntismo?

E qui naturalmente entra in gioco l’intero modello organizzativo su cui si è fondato il Pd. Le incongruenze e le conseguenze di una leadership personale costruita con il meccanismo delle primarie “aperte” (a cui alcuni settori del Pd sembrano talmente affezionati da farne il loro stesso tratto identitario: come se quella che rimane pur sempre una procedura possa di per sé surrogare idee e principi…) si possono cogliere proprio su questo punto. Le parole sopra citate di Zingaretti descrivono perfettamente ciò che di fatto è sempre stato il Pd, ossia un partito in franchising, in cui il potere dei leader nazionali si fonda su filiere di notabili e potentati locali, che contrattano la propria autonomia e libertà d’azione con il consenso al leader “centrale”. È evidente che, in tal modo, le correnti diventano mere cordate di potere, non certo quello che potrebbero e dovrebbero essere in un partito pluralistico, ossia l’espressione di diverse aree di cultura politica, ma anche di rappresentanza sociale (come erano, in parte, le correnti nella Dc).

Quindi, gli appelli non bastano: la “rivoluzione” di cui parla Zingaretti potrà mettere radici solo se si interviene radicalmente sui meccanismi statutari. E qui bisogna intendersi; è prevedibile che, a questo punto del discorso, qualcuno legittimamente possa obiettare: “ma il Pd ha bisogno di dire cosa vuole o cosa pensa di fare per la società italiana! Non può certo rinchiudersi a discutere di statuto!” Sacrosanto, ma è proprio questo il punto in cui si collegano le due questioni. Il Pd è un partito in cui mancano totalmente procedure e meccanismi democratici che costruiscano un serio rapporto tra i momenti della discussione, della partecipazione e della decisione. Facciamo alcuni esempi. Il Pd, su tante questioni, ha evidentemente bisogno di precisare, articolare, rinnovare il proprio discorso programmatico: c’è chi sostiene la necessità di una più radicale discontinuità rispetto alle scelte dei governi di centrosinistra, c’è chi sostiene che tali scelte invece vadano difese e rivendicate. Come e chi decide, allora, sulla “linea” da seguire? Le recenti discussioni in Parlamento sulle politiche per l’immigrazione mostrano come le linee di divisione non siano sempre riconducibili agli schieramenti congressuali: già, ma quali sono allora nel partito le idee prevalenti? “decide” il segretario, motu proprio? E come si fa a stabilire, ad esempio, se nel partito prevalgono coloro che vogliono archiviare il Jobs Act o se invece è più rappresentativa la posizione del capogruppo al Senato Marcucci che – di fronte alle intenzioni del neo-responsabile delle politiche del lavoro della segreteria nominata da Zingaretti, Giuseppe Provenzano – si è chiesto se tali intenti di revisione del Jobs Act non rivelassero semplicemente il fatto che quest’ultimo forse aveva “sbagliato partito”?

A fronte di tutto ciò, non bastano gli appelli retorici all’”ascolto”, all’“apertura”, e non basta istituire benemeriti “forum”, se poi non si chiarisce come si passa dal dialogo alla decisione. Ben venga quindi la “costituente delle idee”, ma il lavoro che è stato affidato alla commissione presieduta da Martina è forse quello che maggiormente potrà incidere sul futuro di questo partito. Ad esempio: nello Statuto vigente, sarebbe pur prevista la “conferenza programmatica annuale”, mai praticata e mai regolamentata, nei dieci anni di vita del Pd. Bene, la si riprenda e la si riformuli e, soprattutto, si stabiliscano procedure di elezione dei delegati e poi di voto nella conferenza che permettano finalmente a questo partito di confrontarsi e di misurarsi, e poi anche di contarsi, sulle “tesi” che debbono guidare la linea del partito (e non a caso ho ripreso questo vecchio termine: usato quando i congressi erano veri congressi…).

Peraltro, solo se cambiano radicalmente le procedure della partecipazione e della decisione potranno acquisire un senso i ricorrenti appelli che provengono dal Pd, a “dare una mano”, a “entrare” nel partito ecc. Bisogna essere schietti: ora come ora, se il Pd rimane quella struttura feudalizzata sopra evocata, cosa si verrebbe a fare, nel partito? Ad affiliarsi a qualche corrente, forse…

Insomma, questo processo di radicale ripensamento non può che investire simultaneamente sia l’identità politica e culturale del partito sia l’idea di democrazia che ispira il suo modello organizzativo. Senza di ciò, questo partito rischia di potersi eternamente limitare a ripetere solo “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”: un’identità definita per esclusione, ché – altrimenti – il partito non “si tiene” insieme…