Nella letteratura specialistica la spiegazione più accreditata del successo populista è quella economicista. E chiama in causa i modernisation losers, o i left behind. I quali, per una prima variante, non sono in grado di adattarsi, per loro carenze culturali, al cambiamento imposto dallo sviluppo tecnologico. Che ha preteso un radicale aggiornamento del capitalismo, in ragione del quale gli individui devono mobilitare le loro capacità personali e smetterla di contare sulle dispendiose sicurezze offerte dallo Stato. Stando a una seconda lettura, i losers sono vittime dell’evoluzione, spietata, del capitalismo. Vuoi incapaci, vuoi vittime, i losers, provenienti dalle classi popolari e dal ceto medio, si volgerebbero comunque ai populisti: nella prima ipotesi confermando la loro inferiorità culturale e morale; nella seconda solo per vendetta, comprensibile in chi non disponga di altre possibilità di autodifesa. Conferma questa seconda ipotesi il fatto che talvolta l’ascesa populista è stata frenata dall’ingresso in scena di nuove forze politiche più coerenti con quelle a cui gli elettori erano abituati: Podemos in Spagna, la France Insoumise oltralpe, i Verdi in Germania.

Per parte loro, i partiti populisti da tempo si dedicano con impegno ai perdenti, per aggiungerli al loro target originario e tuttora preminente (troppo spesso messo in ombra: cfr. G. Passarelli e D. Tuorto, La Lega di Salvini, Il Mulino, 2018), che è il ceto medio autonomo, interessato alla loro offerta di deregulation e lassismo fiscale, preconfezionata dal neoliberismo. Radicalizzato questo segmento elettorale, con il loro nazionalismo (o regionalismo) esclusivista, i partiti populisti, forte del nome loro attribuito, si sono rivolti al popolo, o ai ceti popolari. Si sono cioè adoperati per espandersi tra coloro che versano in condizione di vulnerabilità, disuguaglianza, insicurezza, non solo sociale ed economica, ma pure politica, intendendo quest’ultima come effetto del decadimento dell’azione di rappresentanza dei partiti convenzionali: di sinistra e moderati.

È difficile valutare quanto ascolto i populisti abbiano trovato tra i losers. Forse meno di quanto amano raccontare coloro che intendono addossare loro l’avanzata populista, assolvendo le devastazioni sociali prodotte dal neoliberalismo. Ciò non toglie che una porzione non irrilevante di losers abbia abboccato, sospinta da ultimo da due moventi aggiuntivi: la Grande recessione, col suo contorno di misure di austerità, che ha aggravato le condizioni di vita, e la crisi migratoria, che il framing populista ha proposto ai losers come una minaccia ulteriore.

Le migrazioni, specie se massicce, non sono mai fenomeni pacifici. Suscitano insofferenza, tensioni e divisioni, sia per chi migra, sia per chi accoglie. Li suscitano a maggior ragione allorché se ne delega il framing agli imprenditori populisti della paura: nell’esperienza italiana la viltà mostrata dal governo Gentiloni e dal Pd nella vicenda del cosiddetto ius soli, insieme alle misure del ministro Minniti, ha segnato la resa definitiva.

Se però le ragioni economiche contano, non è detto che le cose non siano, come sempre succede, più complicate di quanto appare. È possibile che l’intreccio tra crisi economica e migrazioni abbia consentito alla propaganda populista di riportare a galla dalle viscere del Paese qualcosa di più profondo. Ovvero, c’è da chiedersi se il successo del populismo, oltre ad avere qualche movente economico, non abbia pure un movente culturale e non corrisponda a una fonte di rischio che c’è sempre stata. Il fascismo nella storia d’Europa non è stato un incidente. La modernità europea è stata segnata dalla presenza di un cospicuo grumo di pensiero e sentimenti reazionari: fatto via via di anti-Illuminismo, organicismo, antiparlamentarismo, antipartitismo, antisemitismo, razzismo, nazionalismo, antidemocrazia. Questo grumo non si è disciolto solo perché il fascismo è caduto.

Non solo militanti, quadri, attivisti, circoli di estrema destra si sono riprodotti, magari sotto altre vesti. Ma pure i sentimenti che erano stati l’humus del fascismo hanno seguitato a percolare tra vasti strati della popolazione e tuttora lì si depositano. Come ricorda il bel romanzo di Géraldine Schwarz (I senza memoria, Einaudi, 2019), la bonifica del passato criminale del fascismo da parte dei regimi democratici è stata superficiale e affrettata. Mentre l’antifascismo è stato messo a lungo fuori corso. Magari soffocato da una pretesa simmetricità con l’anticomunismo.

Tanto per dire che il successo populista è anche effetto del percolato di antichi sentimenti reazionari e antimodernisti. Il quale può produrre manifestazioni estreme: come la vergognosa aggressione verbale di cui è stata vittima Carola Rackete sul molo di Lampedusa e come i tanti episodi d’intolleranza e violenza verso i migranti. Ma anche manifestazioni più sottili e forse più inquietanti, come l’indifferenza che in tanti mostrano per la tragedia dei migranti in mezzo al mare e l’indisponibilità all’accoglienza.

La propensione di tanti a minimizzare le brutalità verbali del ministro dell’Interno e le violenze reali che fanno loro eco è senz’altro motivo di sgomento per molti. Sgomenta che qualcuno si rifugi dietro la maschera di una legalità immorale, che sarebbe stata violata dalle Ong o da Mimmo Lucano. Ma turba soprattutto che il percolato reazionario sia riaffiorato nei sentimenti dei benpensanti che stanno accanto a noi. Sono uomini e donne comuni, spesso discretamente o ben istruiti, pronti  a commuoversi in caso di disastri naturali, a contribuire alle collette di Telethon: il tabaccaio sotto casa, l’insegnante devota agli studenti, la signora tutta Caritas e nipotini, il colto studioso di storia locale, la badante (italiana) della zia, l’operaio prepensionato, qualche studente, alcuni anche osservanti. Se li accusi di razzismo, lo negano. Al più denunciano un’attenzione dei pubblici poteri verso i migranti che è loro negata. Comunque, ad ascoltarli, si avverte più una frattura culturale che una rivalsa economica: una frattura confermata dall’interessante ricerca condotta da Niccolò Bertuzzi, Loris Caruso e Carlotta Caciagli (Popolo chi?, Ediesse, 2019) circa i sentimenti degli strati popolari e di spezzoni del vecchio elettorato di sinistra. Così come la frattura trova conferma in quei paesi del Mezzogiorno dove di migranti non c’è ombra, ma che si sono convertiti alla Lega. Non perché (come chi scrive riteneva fino a ieri) qualche capoccione locale, già democristiano e poi forzaitaliota, si è fatto due conti. Che Salvini in linea generale abbia profittato del decadimento, anche personale, del berlusconismo è fuor di dubbio. Ma tanti italiani trovano pure qualcosa di condivisibile nelle parole e nei gesti di Salvini. A vedere i sondaggi, qualcosa di condivisibile ce lo trovano perfino un po’ di elettori del Pd.

Le ricerche americane sulla cultura politica degli italiani a fine anni Cinquanta restituivano un Paese tradizionalista, conservatore e non troppo democratico. Da allora sono successe molte cose. Ma quel Paese, che il referendum sul divorzio aveva dimostrato minoritario, ha resistito e, dopo lungo silenzio, sottoposto allo stress dell’immigrazione, è ricomparso e apertamente confessa il suo allarme. Forse non solo per il sopraggiungere dei migranti. È inutile nascondere gli effetti destabilizzanti che possono avere su alcuni la nuova condizione femminile, le nuove convivenze familiari, la complessità crescente della vita cittadina, la rarefazione delle relazioni sociali in tutti quei comuni medi e piccoli in decremento demografico.

Se non che, posto che provare sgomento è una reazione ovvia, sarebbe sociologicamente e politicamente sbagliato indignarsi constatando la divisione del Paese in due tipi umani irriducibili. Anche perché certi sentimenti restano inquietanti, ma sono stati smussati, o si sono contaminati con altri, si sono anche scomposti, col trascorrere dei decenni. La loro persistenza entro una società democratica li ha diluiti, lasciando persistere un fondo che si è risvegliato e che adesso Salvini prova a rieccitare. Non si deve stare al suo gioco, ma sventarlo. È un problema non solo italiano, anche se i dosaggi sono probabilmente diversi. Occorre piuttosto persuadersi che questi sentimenti, che da sempre covano nelle viscere dell’Europa, sono la grande palude che tocca ancora bonificare con un’appropriata e razionale azione politica, che non demonizzi, o non si arrenda alle paure, ma che elabori un’alternativa.