1. Partiamo da alcuni temi salienti nel panorama politico contemporaneo. In questi ultimi anni l’immigrazione è stata al centro delle campagne elettorali e del dibattito pubblico in molte delle democrazie più ricche. La destra e la sinistra sembrano almeno nominalmente divise su come affrontare la questione, ma il senso comune è che si tratti di un «problema» che va contenuto e arginato. Perché l’immigrazione è diventata un tema così saliente?

Se guardiamo alla migrazione solo in termini di numeri e di flussi, i dati ci dicono che, sebbene il numero delle persone che vivono al di fuori del loro Paese di nascita sia cresciuto in termini assoluti, questo è in linea con la crescita della popolazione globale, e dunque in proporzione ai flussi del passato. Se guardiamo al contributo dei migranti nelle società ospiti, non ci sono prove del fatto che i migranti siano un onere in termini assoluti. Ma nel discorso politico ci si riferisce lo stesso alla migrazione come a un problema.

Penso che il problema sia politico, non demografico, né culturale. E la questione non ha niente a che fare con i migranti stessi, ma esclusivamente con le classi dirigenti, che si sono comportate allo stesso modo anche in passato. La storia ci insegna che le élite al potere si sono spesso rifiutate di garantire i diritti a minoranze vulnerabili all’interno della società, per poi accusarle di mancata integrazione e trasformarle in bersagli agli occhi del resto della popolazione. La divisione fra autoctoni e stranieri che è centrale al dibattito sulla migrazione è solo l’ultima riproposizione di uno schema ben noto di esclusione.

Il problema dunque non sono i migranti in quanto tali. I migranti benestanti sono benvenuti; anzi, l’acquisizione della cittadinanza non è mai stata così facile per i ricchi, per gli investitori, per gli imprenditori e per i professionisti. Sono solo i migranti poveri ad essere sistematicamente esclusi e privati dei diritti: i migranti irregolari costretti nei centri di detenzione, quelli che vogliono raggiungere le loro famiglie ma non guadagnano abbastanza, quelli che non hanno un livello di istruzione sufficiente a superare i test di cittadinanza, e così via.

Gli Stati liberali occidentali stanno fallendo su molti fronti: non stanno rispondendo alle esigenze dei ceti più bisognosi (sia cittadini che non cittadini), non riescono a gestire un’economia che funzioni per tutti, non riescono a sviluppare un ordine globale fondato sulla cooperazione anziché sull’antagonismo. Il problema, per come lo vedo io, consiste nello sfruttamento capitalista e nell’indebolimento della capacità d’azione politica.

La migrazione offre semplicemente un modo spiccio per articolare i conflitti esistenti nella società, un modo che riconosce che tali conflitti esistono ma non ne coglie le cause a un livello adeguato di analisi. Una comunità politica che accusa dei propri fallimenti coloro che non ne fanno parte, o che non hanno titolo a farne parte, o sono visti come non meritevoli di farne parte, può evitare di assumersi la responsabilità dei propri fallimenti: può continuare a biasimare degli attori vulnerabili per questi fallimenti e far finta di avere delle soluzioni da offrire una volta che la minaccia dell’«altro» sia stata eliminata.

 

[L'articolo completo pubblicato sul "Mulino" n. 3/19, pp. 467-473, è acquistabile qui