Per rafforzare e allargare la “gracile” (parola di Zingaretti) vitalità manifestata dal Pd alle recenti elezioni europee, è necessario discutere approfonditamente, ben al di là del rimpianto per il “popolo perduto” di cui parla Mario Tronti, di alcune parti problematiche della storia delle sinistre e del centrosinistra italiano. Parti problematiche su cui è mancata fin qui una vera riflessione critica e autocritica, il che ha favorito la deriva verso un indistinto neocentrismo non in grado di interpretare la radicalizzazione autonomamente vissuta dalle società contemporanee, assai meglio intercettata dalle destre populiste.

Prendiamo il caso dell’individuazione da tempo compiuta da Scalfari di una matrice crociana-einaudiana-liberale nella cultura economica e sociale del vecchio Pci. Io ho trovato sempre stimolante tale individuazione, ma non sono d’accordo con l'esaltazione che egli ricorrentemente ne fa (si veda da ultimo “la Repubblica” del 19 maggio), attribuendone le caratteristiche anche alla nobilissima figura di Enrico Berlinguer. Tuttavia, al di là di quanto sia legittimo inserire in quella matrice pure Berlinguer, c’è qui, sul piano storico e su quello analitico-teorico, un nodo di fondo sul quale è venuto il momento di soffermarsi, intraprendendo una critica e un’autocritica la cui carenza o mancanza sono una delle cause più rilevanti dello stallo in cui si trovano il Pd, il centrosinistra e le sinistre italiane. Sia chiaro: carenze di questa natura sono oggi presenti in tutte le formazioni che in Europa e in Italia si collocano a sinistra, comprese quelle di origine cattolico-democratica. In particolare il Pd, anche in conseguenza della sua nascita come fusione fra componenti diverse mal concepita e mal riuscita, ha subito uno slittamento profondo del suo asse teorico e pratico, consentito dall’equivoco originario, mai chiarito, per cui si assumeva implicitamente che “partito a vocazione maggioritaria” significasse “partito spostato verso il moderatismo”. Ma ciò a cui ora sono interessata è una riflessione sul modo in cui alcune ambivalenze strutturali del Pci (al quale mi iscrissi nel 1975) hanno segnato la sua forte attitudine riformatrice e la successiva evoluzione del riformismo italiano.

Nel Pci l’amalgama meno produttivo è stato quello tra una fascinazione totalizzante dell’”autonomia del politico”, una visione dei processi economici basata sull’esaltazione della concorrenza e l’indifferenza o l’ostilità agli apparati e alle imprese pubbliche – frutto della persistenza di una matrice veteromarxista e terzinternazionalista, a vocazione antimonopolistica e critica del “capitalismo monopolistico di Stato” –, l’accettazione della separazione crociana tra etica e politica. Tutto ciò nel Paese di Machiavelli, dove la sua eredità è stata spesso usata come un alibi per giustificare miscele di cinismo e di trasformismo – di cui è un segno Calenda che, appena eletto nel Pd, si dichiara pronto a fondare un nuovo soggetto politico – e dove anche la sinistra è rimasta invischiata in una tradizione storicista e materialista che non di rado ha portato a snobbare come “filistee” o come “moralistiche” le istanze etiche e valoriali in politica.

Da un lato, storicamente la cultura del vecchio Pci è stata molto influenzata da un hegelismo giustificazionista e dal liberalismo di Labriola, Croce, Einaudi, un liberalismo che si saldava con residui terzinternazionalisti “classisti” e “crollisti”, poco attenti alla dimensione morale e sociale intrinseca alla nascita e allo sviluppo dei Welfare State (verso cui gli eredi del Pci ebbero più di una diffidenza, considerandoli tentativi di “integrazione” della classe operaia) e poco atti a far cogliere il dinamismo e le trasformazioni, anche sul piano simbolico e valoriale – basti pensare al Sessantotto e al femminismo –, sempre contenuti nei fenomeni economici e sociali. Tanto è vero che, a sinistra, le prime impostazioni innovative – con significativi germogli di quel keynesismo introdotto in Italia da Fanfani – si colgono nella Cgil, prima con il Piano del Lavoro di Di Vittorio del 1949 (che venne accolto con una paradossale convergenza tra l’ostilità di De Gasperi e della Dc di centrodestra e la freddezza di Togliatti e del Pci) e poi con l’elaborazione sul neocapitalismo degli anni Sessanta e quella successiva. E tanto è vero che la generalità degli eredi del Pci rimase estranea ai tentativi di programmazione – straordinari anche sotto il profilo dell’investimento culturale, se riguardati con la consapevolezza dei problemi e dei ritardi odierni – messi in atto con il primo centrosinistra e veicolati da personaggi, diversi ma accomunati da un medesimo originario radicalismo culturale, quali La Malfa, Giolitti, Ruffolo, Lombardi.

Da un altro lato, in termini di cultura politica generale, per gli eredi del Pci il persistente riferimento al “finalismo rivoluzionario” finiva con l’esentare da quella ricostruzione analitica accurata che la articolazione di un quadro autenticamente riformatore richiede, in particolare per quanto riguarda una “teoria dello Stato e delle istituzioni” di cui i comunisti - con le eccezioni di Ingrao e Tortorella – furono carenti (nell’inconscio operava il pregiudizio secondo cui “lo Stato borghese si abbatte e non si cambia”). Ciò non impediva il proseguimento della straordinaria opera riformista nelle regioni rosse, ma non era senza relazione con l’intreccio con quello che fu definito il consociativismo (un consociativismo che per lungo tempo ha reso possibile la coesistenza del “finalismo rivoluzionario” sul piano teorico e di pratiche compromissorie sul piano fattuale). Così anche l’agitazione della “questione morale” da parte di Enrico Berlinguer non fu ben fondata ed ebbe scarsa presa.

E così l’ondata neoliberista che arrivò anche in Italia dalla metà degli anni Ottanta – e che oggi si combina in modo spurio con i populismi – trovò pochi argini lungo il proprio cammino e più nei continuatori degli insegnamenti di Dossetti e meno nel Pci, i cui eredi affrontarono inermi le flessibilizzazioni del mercato del lavoro, la “riduzione del perimetro pubblico”, le liberalizzazioni e le privatizzazioni, venendo pertanto alimentate quelle che nel centrosinistra più in generale furono, e sono rimaste, vere e proprie inerzie, timidezze, subalternità, conformismi.