Da una decina di anni l’espressione di voto nella città di Napoli ci ha abituati a frequenti scossoni, spesso in controtendenza col dato nazionale.

Alle elezioni comunali del 2011 si afferma in modo inatteso la composizione di liste civiche e pezzi di partito capeggiata da Luigi De Magistris, che al primo turno supera le formazioni di centrodestra e centrosinistra aggiudicandosi poi il ballottaggio con un netto 65,4% di voti. Termina così il lungo periodo di governo del centrosinistra, prima sotto la sindacatura di Bassolino e poi sotto quella di Iervolino (1993-2011). La vittoria di una formazione spuria rispetto alle culture politiche tradizionali già nel 2011 anticipa il radicale processo di riorganizzazione della politica nazionale a cui abbiamo assistito negli ultimi anni. Il consenso diffuso del nuovo sindaco frena l’ascesa del Movimento 5 Stelle, che mantiene un profilo basso anche per la maggiore connotazione di sinistra che il movimento di Grillo assume in città (e dunque più affine all’offerta politica di De Magistris), con diversi esponenti che si richiamano esplicitamente a quella tradizione. Questo dato di singolarità della città si proietta sulle successive elezioni comunali del 2016, in cui il sindaco uscente riconferma il proprio consenso in modo clamoroso, in un quadro unico nel Paese che vede le altre principali liste (Pd, Forza Italia, lo stesso M5S) tutte assieme raggranellare un magro 30%.

Appena due anni dopo, alle elezioni politiche del 2018, il M5S sbanca, raggiungendo il primato storico in città nel contesto delle elezioni repubblicane con il 52% dei voti, con punte ben oltre il 60% nei quartieri svantaggiati perlopiù localizzati in periferia.

Da questo punto di vista le recenti elezioni europee offrono un quadro di assestamento, con un calo deciso del M5S, che tuttavia mantiene circa il 40% dei voti, con un ritorno del Pd (23,3%, 9 punti in più rispetto alle politiche 2018) e con una relativa ascesa della Lega (12,4%, mentre aveva il 2,6% nel 2018).

Su alcuni elementi di rilievo è bene soffermare l’analisi. In primo luogo l’astensione, che è sensibilmente più forte rispetto alla media nazionale e alle altre grandi città. Il tasso di affluenza registrato a Napoli in queste elezioni è del 40%, in calo di quasi 3 punti percentuali rispetto alle elezioni europee del 2014 e inferiore di circa 16 punti percentuali rispetto al dato nazionale (56,1%). È il tasso più basso tra le prime cinque città italiane per popolazione, poco distante da Palermo (41%) e lontano circa dieci punti percentuali da Roma (48,9%), che diventano venti rispetto a grandi città del Nord come Milano (58,7%) e Torino (60,9%). Fra i centri con più di 100.000 abitanti si registrano percentuali inferiori solo in alcune città del Sud come Messina (36,6%), Catania (37,1%) e Giugliano, in provincia di Napoli (37,3%). Il tasso di affluenza registrato in queste europee è il più basso mai registrato in città a una tornata elettorale, ultima tappa di un percorso che vede, per tutti i livelli istituzionali, un calo tendenziale cominciato negli anni Ottanta e divenuto costante – eccetto che per le politiche 2018 – negli ultimi 15 anni.

L’astensione varia molto tra i quartieri, indicando ragioni specifiche della disaffezione verso la partecipazione elettorale (come mostra la mappa dei quartieri). Così come alle europee del 2014 e alle politiche del 2018, anche in questa tornata il divario medio tra i quartieri benestanti e quelli marginali, in termini di affluenza, è di circa 10 punti percentuali. Distanza considerevole, che raddoppia se si confronta il quartiere con maggiore affluenza (Vomero, 52%) con il quartiere con minore affluenza (Pendino, 30,4%). Non basta, dunque, l’offerta politica radicalizzata che negli ultimi anni si è imposta al livello nazionale per intercettare il malcontento di ampie fasce di cittadini, e in particolar modo di quelle ai margini.

Attestandosi come i campioni dei quartieri marginali nel 2018, i 5 Stelle sono la forza politica maggiormente colpita dall’astensionismo, con circa la metà dei suoi elettori che decidono di non recarsi alle urne, come indicano i flussi calcolati dall’Istituto Cattaneo.

Nonostante questa emorragia di consensi, il M5S continua ad avere il suo punto di forza nelle periferie, in modo opposto a quanto accade per il Pd. L’immagine delle due città tratteggiata dall’astensione trova quindi conferma nei risultati elettorali delle due formazioni maggiormente radicate in città. È questo il secondo punto di rilievo del quadro politico cittadino. Anche in questo caso il dato è in continuità con le elezioni politiche del 2018 e con altre grandi città italiane. Il ristretto bacino di votanti (come detto, meno della metà rispetto agli aventi diritto) si distribuisce in modo polarizzato, con le periferie (geografiche e sociali) che votano massicciamente per il M5S, e con un centro che assume i tratti della cittadella assediata, dove il Pd fa segnare risultati notevoli in termini percentuali, mentre, visto il calo dell’affluenza, in termini reali l’aumento dei voti è decisamente più contenuto.

Il Partito democratico vince in particolare nei quartieri Arenella (32,9%), Chiaia (38,9%), Posillipo (34,1%), San Giuseppe (34,5%) e Vomero (37,7%), mentre in tutti gli altri quartieri della città prevale il M5S, che supera la metà delle preferenze espresse nei quartieri periferici di Miano (55,9%), Piscinola (50,7%), Scampia (56,2%) e Secondigliano (53,8%).

E veniamo al terzo punto di rilievo, la vera novità di queste elezioni: l’affermazione della Lega, per la prima volta a Napoli in doppia cifra (12,4%). Quali sono le gambe su cui si regge un'offerta politica per tanti aspetti contraddittoria rispetto alle domande provenienti dalla città (si pensi solo al progetto di autonomia differenziata delle regioni)? Che caratteristiche sociali possiamo associare a questo voto?

Innanzitutto, occorre notare che la Lega ottiene risultati maggiori laddove più forte è stata in passato la tradizione politica del voto di destra, e ricalca, se consideriamo le tornate elettorali più recenti, la geografia elettorale del voto al Pdl. Certamente ha contato il richiamo dei temi legati alla sicurezza urbana, come testimonia il fatto che si riscontra un’alta concentrazione di voti proprio nei luoghi di recente visitati da Salvini a seguito di proteste per la presenza di immigrati. Ma non è solo una mera questione di comunicazione e offerta politica. Va considerato che il gruppo dirigente leghista reclutato in sede locale è composto in massima parte, sia a livello di rappresentanza comunale, sia a livello di rappresentanza nazionale, da personale politico che ha svolto la classica trafila dal Msi ad An fino al Pdl. In altri termini, sembra contare una continuità storica di classe politica, radicata in un nocciolo duro di elettorato, che trova nella proposta leghista ragioni di riaffermazione. Il dato è chiaramente confermato dalla correlazione statistica tra voto alla Lega in queste europee e voto alla coalizione riunita attorno a Berlusconi nelle passate elezioni politiche, dal 1994 al 2013 (sempre superiore allo 0,5). Se si confronta il dato della Lega odierno con quello di Forza Italia del 2018, la correlazione è meno forte: ciò è probabilmente dovuto al primato dei 5 Stelle del 2018 che intercettano parte dei voti di Berlusconi. A sostegno di questa tesi l’analisi dei flussi del Cise mette bene in evidenza come fra le politiche del 2013 e quelle del 2018 un consistente pacchetto di voti della coalizione di Berlusconi sia andato verso l’astensione o verso il M5S.

Il partito di Salvini, in definitiva, assume un profilo analogo a quello riscontrato in altre aree del Paese: una sorta di centrodestra radicalizzato che raccoglie, a Napoli entro livelli ancora contenuti, nuclei di voto che in passato erano andati a Berlusconi. Ereditandone anche la vocazione interclassista, sebbene sbilanciata verso i quartieri svantaggiati, come mostrano i risultati sopra la media ottenuti nel quartiere più ricco della città (Posillipo 13,6%) e nei quartieri a maggioranza di cittadini poveri di San Pietro a Patierno (19,8%), Vicaria (18%) e San Lorenzo (17,9%). Una composizione politico-sociale che lascia pensare a una potenzialità di ulteriore radicamento ed espansione, se non dovessero intervenire fattori che reimmettano nel circuito della rappresentanza la maggioranza silenziosa dell’astensione.