Un voto bello e promettente. Le elezioni spagnole del 28 aprile hanno lasciato pochi margini di dubbio per quanto riguarda l’interpretazione dei risultati: le hanno vinte i socialisti, il Pp di Pablo Casado ha conosciuto un tracollo senza precedenti, Ciudadanos è uscito rafforzato, Podemos indebolito, senza che si sia prodotto il temuto sfondamento di Vox. Nulla di imprevisto rispetto alla media degli ultimi sondaggi del 18 aprile, che solo sulle dimensioni della sconfitta sono risultati troppo “generosi” con i popolari. Se si considera che il Psoe, oltre ad essere risultato il partito più votato al Congresso dei deputati, ha conquistato la maggioranza assoluta del Senato (conquistando 123 seggi su 208) e vinto nella Comunità Autonoma Valenciana, dove contestualmente si è votato per rinnovare il parlamento regionale, si ha la misura del successo di Pedro Sánchez. Certo, i socialisti sono rimasti abbondantemente al di sotto dei 176 deputati necessari per l’investitura del presidente del governo, ma la cosa ha sorpreso solo chi, ignaro del meccanismo elettorale spagnolo, non ha tenuto conto che mai finora erano scesi in lizza cinque partiti accreditati di percentuali a due cifre.

Prima di accennare agli scenari che si aprono per la governabilità, è bene procedere all’analisi del voto.

Cominciamo dall’affluenza alle urne, che con il 75,75% dei partecipanti (circa sei punti in più rispetto alle precedenti legislative) ha dato un segnale in controtendenza rispetto alla generale (cioè europea) disaffezione per la politica. La democrazia non s’esaurisce con il voto, ma l’alta affluenza resta comunque una festa. E risulta del tutto evidente che a questa festa ha voluto partecipare sia quell’elettorato di destra spaventato dal secessionismo catalano, sia quell’elettorato di sinistra che, in precedenza deluso dai socialisti e non convinto da Podemos, ha deciso di recarsi alle urne per contrastare l’ascesa della destra radicale di Vox.

Per quanto concerne i numeri, il Psoe ha ottenuto 7.480.755 voti (28,6%), conquistando 123 seggi (+38 rispetto al 2016); il Pp 4.356.023 voti (16,7%) e 66 seggi (-71); Ciudadanos 4.136.600 voti (15.8%) e 57 seggi (+25); Podemos 3.732.929 voti (14,3%) e 42 seggi (-26); Vox 2.677.173 voti (10,2%) e 24 seggi. In termini assoluti, sia pure per una manciata di voti (meno di 44 mila), i due partiti di sinistra (Psoe e Podemos) hanno superato i tre partiti di destra (Pp, Ciudadanos e Vox), così come li hanno superati in percentuale, sia pure solo di due decimali. Ma confrontando i risultati del 28 aprile con quelli delle elezioni legislative precedenti, il dato tendenziale mostra che i tre partiti di destra hanno ottenuto, con il 42,7% dei voti, percentualmente meno di quelli ottenuti dal Pp e Ciudadanos nel 2016 con il 46,08%. Non solo. Poiché la principale discriminante nella contrapposizione destra/sinistra (che con buona pace di quelli che la considerano obsoleta) nella campagna elettorale spagnola è stata la questione catalana, ai voti e alle percentuali della sinistra sono da sommare quelli ottenuti dai partiti indipendentisti catalani (almeno quello di Erc, che con oltre un milione di voti rappresenta quasi il 4% dei consensi su base nazionale) e quelli del meno radicale Partito nazionalista basco (Pnv). Sicché la prima conclusione da trarre è che la destra spagnolista che ha eretto un muro contro l’apertura del dialogo con l’indipendentismo catalano non risulta oggi maggioritaria in Spagna. Per altro verso, occorre aggiungere che se le due forze indipendentiste hanno ottenuto ottimi risultati in Catalogna, conquistando 22 dei 48 seggi in palio – 15 (+6) andati a Erc che ha ottenuto 1.015.355 voti, pari al 24,59 % su base regionale, e 7 da JxCat che di voti ne ha presi 497.638, pari al 12.05%, sempre su base regionale – un ottimo risultato hanno ottenuto anche i socialisti catalani, che hanno avuto 958.343 voti, pari al 21% dei consensi e 12 seggi, mentre l’indipendentismo non è andato oltre il 36,64% dei consensi, in forte calo rispetto alle ultime elezioni autonomistiche catalane.

Per quanto concerne i flussi elettorali, i socialisti hanno recuperato sia una parte dei voti dell’elettorato di sinistra deluso che si era astenuto nelle ultime due competizioni elettorali, sia una parte dei voti andati nelle stesse occasioni a Podemos, mentre poche incertezze lascia l’origine popolare dei voti andati a Ciudadanos e a Vox.

Le elezioni hanno detto anche altro. Hanno indiscutibilmente premiato la tenacia e rafforzato la leadership di Pedro Sánchez nel Psoe, la cui vecchia guardia (da Felipe González a Zapatero, per giungere alla ex presidentessa della Comunità Autonoma Andalusa, Susana Díaz, sonoramente sconfitta nelle elezioni andaluse del 2 dicembre 2018) l’aveva defenestrato in malo modo per poi vederselo rispuntare alle primarie che ne avevano decretato il successo, seguite dalla presentazione della mozione di sfiducia che aveva costretto Mariano Rajoy alle dimissioni seguite dall’investitura di Sánchez alla presidenza del governo.

Hanno mostrato la modestia di Pablo Casado che, incoraggiato dal suo principale sostenitore, il redivivo José María Aznar, e spostato a destra l’asse del partito per contrastare l’emorragia di voti verso le forze collocate alla sua destra, l’ha di fatto favorita. Dimezzato in voti e in deputati, il Pp è praticamente sparito dalla Catalogna e dai Paesi Baschi, cioè da due delle Comunità autonome più avanzate e che più contribuiscono al Pil del Paese iberico. Non solo. Con la linea adottata da Casado il partito ha perso quella funzione di drenaggio della destra più radicale che aveva finora positivamente svolto nella e per la democrazia spagnola. Difficile pensare che resti alla guida del partito.

Vox ha oggettivamente giocato il ruolo che Ciudadanos e il Pp avevano paventato e i sondaggi previsto. La sua presenza ha indebolito in termini di seggi la destra. Portando alle Cortes per la prima volta dal ritorno della democrazia un drappello di deputati di una destra radicale nostalgica del franchismo e vicina al gruppo di Visegrad, ha allineato la Spagna a tutti gli altri Paesi europei su cui l’onda del neonazionalismo populista e xenofobo si era già abbattua. Può essere un cattivo presagio in vista delle europee, sempre che non si sottovaluti un dato altrettanto significativo. E cioè che al 10% di elettori di Vox, si contrappone il 90% di un corpo elettorale che per quanto possa essere deluso dal funzionamento delle istituzioni europee non ne mette in discussione l’esistenza e non vagheggia arretramenti di natura sovranista.

I prossimi mesi diranno se Albert Rivera insisterà nel convogliare nella stessa direzione Ciudadanos che, da partito proclamatosi socialdemocratico, poi liberale, ha assunto progressivamente connotati di destra. Rivera si è detto assolutamente contrario ad appoggiare l’investitura di Sánchez, lasciando intendere che lo sarebbe nel caso in cui il socialista fosse un altro. Ma, considerato il consenso di cui gode oggi Sánchez, si tratta di uno scenario del tutto irrealistico.

Ne esiste uno più realistico per quanto riguarda la formazione del nuovo governo? Fino alle elezioni europee del 26 maggio, che in Spagna coincideranno con le comunali e con il voto per rinnovare i parlamenti di dodici Comunità autonome, è impensabile che Sánchez scopra le proprie carte. Occorrerà dunque attendere. Il sospetto è che punti alla riedizione di un governo di minoranza contando, per l’investitura, sul voto favorevole di Podemos, del Pnv e l’astensione di almeno uno dei due partiti indipendentisti catalani. Ma si tratta di un obbiettivo tutt’altro che facile da centrare. Dal ritorno della democrazia, la Spagna non ha mai avuto governi di coalizione e non è detto che questa volta ci si discosti dalla consuetudine.